Quando si va alla ricerca di storie antiche, di racconti popolari tramandati attraverso le generazioni, spesso si trovano frammenti sparsi o versioni incomplete. Allora la ricerca procede come per l'archeologo nello scavo e nel successivo restauro. Primo rilevamento: nella vostra indagine (che siano fonti orali o scritte) avete individuato la traccia di una "Prezzemolina". La riconoscete subito, anche se la madre non va a mangiare il prezzemolo, ma un altro vegetale. E anche se, rispetto alla fiaba più nota, cambia il custode dell'orto (orco/orca/diavolo).
Tuttavia, nel dipanarsi del racconto, la vostra fonte manca di alcuni passaggi (o "motivi") rispetto alla versione più nota. Non è chiaro, ad esempio, con quale stratagemma la ragazza riesce a fuggire dalla torre. Seconda fase, "il restauro": la comparazione con altre varianti ci consentirà di colmare il gap, il vuoto di informazione dovuto ad una trasmissione incompleta o frammentaria. In questo caso siamo autorizzati a completare la versione ritrovata con il "motivo" preso da un'altra variante. Ci sono particolari che sono essenziali per la comprensione della storia, ma che qualche informatore può aver perso lungo la strada della trasmissione orale. Il ricercatore/storyteller fa in modo che le storie ritornino complete, ma evita il rischio di manipolazioni non autorizzate dalla tradizione. Come? Attraverso una conoscenza approfondita dei materiali e delle fonti. Esattamente come un archeologo o un restauratore. Le stesse regole che valgono per i beni culturali materiali, valgono anche per questi beni immateriali o "volatili", come li definiva Alberto Mario CIrese. Terzo passaggio: in occasione della narrazione della storia che abbiamo così restaurato, sarà significativo raccontare anche il percorso della ricerca, se il contesto lo consente. Nel caso di un uditorio composto da adulti, da "addetti ai lavori" e da persone in genere interessate all'arte del narrare, è bello completare sempre con le fonti e con il processo che ci ha portato a definire questa versione. L'esperienza della ricostruzione dei racconti può essere anche un'ottima attività creativa nella scuola, dalla primaria fino alle superiori. Insegna la ricerca delle fonti, la comparazione, la riscrittura con le parti mancanti. Che può portare a tante versioni diverse, e tutte ugualmente "vere". Si può lavorare in gruppo e ascoltarsi a vicenda, senza contestare, senza imporre la propria opinione, semplicemente considerare le diverse possibilità offerte all'interno di una medesima struttura. Ancora un altro contesto in cui è molto proficuo e avvincente il lavoro di ricostruzione è quello con gli anziani. Spesso è proprio qui che incontriamo le storie incomplete, i frammenti, addirittura è rimasto solo il titolo, "ma la storia non me la ricordo proprio, ricordo solo che mi faceva tanta paura". E' naturale che la completezza del testo si sia smarrita: non avendo più avuto occasione di raccontare, la storia si è smembrata e poi inevitabilmente dissolta tra i meandri della memoria. E' del tutto naturale che una persona anziana sollecitata a raccontare "a freddo" vi risponda che non ricorda niente. Sarà necessario un esercizio di "riscaldamento" per far riemergere pian piano i ricordi. Parliamo di altre cose, poi ritorniamo ad interrogare sulla storia che ci interessa. Ma con pazienza e gentilezza. Alla fine è possibile che la storia completa non riemerga. Starà a noi, ricercatori/storyteller, raccontarne una versione completa alla persona anziana. Sarà insomma uno scambio dialogico, sarà come un raccontare a due voci. Al vecchio non resterà la sensazione negativa di non essere stato capace di ricordare, e per tutt'e due resterà il ricordo di una bellissima conversazione, di un passaggio reciproco di memoria e tenerezza.
0 Comments
Non ho avuto la fortuna di conoscere Sheherazade, non ho appreso l'arte del narrare nei palazzi di Baghdad, la mia università furono i vecchi caffè di Montevideo, i narratori anonimi mi insegnarono ciò che so. Nella scarsa educazione formale che ebbi (non superai la prima liceo), fui un pessimo studente di storia. E nei caffè scoprii che il passato era presente e che la memoria poteva essere raccontata in una maniera tale che smetteva di essere “ieri” per diventare "ora".
Non ricordo il nome né il viso dei miei primi "professori"… che si riuniscono ancora nei pochi caffè che restano, per evocare i tempi in cui si aveva il tempo di perdere tempo. Uno di questi raccontò una storia, quando io ero molto giovane. Era una storia del 1904. La sua età rivelava che non poteva essere un testimone dei fatti, però raccontava come se ci fosse stato. Fu la mia prima lezione sull'arte del narrare, che è una bugia che dice la verità. E ascoltando capii che si poteva raccontare in un modo tale che ciò che era accaduto nel passato ritornava in vita quando uno lo racconta. E capii come si possa sentire quel remoto tuono degli zoccoli dei cavalli, come si possano vedere le impronte nella sabbia, anche se il pavimento è di mattonelle o di legno. Quell’uomo, per dire la verità, mentiva, dicendo che le aveva percorse, le praterie insanguinate dopo una battaglia, e aveva visto i morti. E uno dei morti era un angelo, un ragazzo bellissimo, con la fascia bianca, rossa di sangue. E la fascia diceva "Per la Patria e per Lei" e la pallottola era entrata proprio attraverso la parola "Lei". Un secondo racconto sui miei primi passi sull'arte del narrare. Il paese boliviano Z. viveva della miniera e la miniera divorava i suoi figli, infilati nelle voragini, nelle viscere della montagna … in pochi anni perdevano i polmoni e la vita. Avevo passato del tempo lì con loro e avevo degli amici. Era arrivato il momento della partenza. Bevemmo tutta la notte, i minatori ed io, cantando la tristezza, raccontando barzellette delle più cattive. Quando stava per fare giorno, quando mancava poco al fischio della sirena che li avrebbe richiamati al lavoro, i miei amici rimasero in silenzio tutti insieme e uno di loro mi chiese: "E ora dicci com'è il mare" Io rimasi in silenzio. Però insistevano: "Raccontaci come è il mare". Nessuno di loro l’avrebbe mai visto, tutti sarebbero morti presto. E io non avevo altra scelta che portare loro il mare, il mare che era molto lontano, e trovare le parole che fossero capaci di bagnarli. Divinità ed eroi affrontano la discesa agli Inferi, ma ritrovano sempre la strada per ritornare.
Nelle antiche storie tramandate oralmente dalla notte dei tempi si racconta anche dei comuni mortali che finiscono all'Inferno e che, per niente contenti, vorrebbero ritornare indietro, ritenendo la punizione ingiusta. Ho trovato traccia delle varianti di questo mito in Sardegna, nei racconti del Buddha e perfino nel romanzo "I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Perciò se avete tempo, seguitemi in questa appassionante ricerca. Partirò con il raccontarvi la leggenda buddhista: la riporto a memoria, così come la ricordo, dopo averla ascoltata tanti anni fa nella magnifica lettura di Dominique Blanc: Buddha e la corda d'argento "Un giorno, in un chiaro mattino, il Buddha passeggiava sulle rive del lago Fiore di Loto, assorto nella sua meditazione. Quando, sporgendosi sull'acqua e guardando nelle profondità del Naraka, la sua attenzione fu attirata da un uomo che vi si dibatteva furiosamente e sembrava chiedere aiuto. Subito lo riconobbe: era Kantuka, lo aveva incontrato in vita. Lo conosceva bene, era un ladro e un miserabile assassino. Ma il Buddha è l'infinita compassione. Ricordò che una volta Kantuka aveva fatto un gesto di bontà, allontanando dal suo sandalo un ragno, anziché schiacciarlo. Così, in ricordo di quel gesto, il Buddha decise di dare all'uomo una possibilità. prese un filo di ragnatela e lo calò nell'acqua. Nella discesa il filo di ragno si trasformò in corda d'argento e arrivò davanti a Kantuka, il quale subito capì che gli era stata concessa la possibilità di salvarsi. Immediatamente afferrò la corda e, con tutta la forza di cui era capace, vi si avvinghiò mani e piedi per intraprendere la salita. Ma come lui, anche tutte le altre creature condannate al Naraka naturalmente ebbero la stessa idea e tutte vollero seguirlo sulla corda d'argento. Vedendo ciò e temendo che l'esile corda si spezzasse, Kantuka fece per estrarre un pugnale che conservava ancora con sé per recidere la corda sotto di lui. Ma ebbe solo il tempo di pensare quel gesto che la corda si spezzò sopra di lui e ricadde per sempre nel Naraka". Nella versione sarda, la corda d'argento è un più umile stelo di cipolla e la protagonista è La mamma di San Pietro "Quando Gesù era nel mondo e andava in giro con i suoi apostoli, la mamma di San Pietro non lo poteva sopportare. Era una donna davvero cattiva, si dice che fosse una fattucchiera (una majarza in sardo), e cercò più volte di colpire Gesù con le sue magie, ma naturalmente senza successo. Insomma, alla fine sappiamo come andarono le cose, San Pietro andò in Paradiso con Gesù e sua madre invece nell'Inferno! Questo San Pietro non lo poteva accettare e pregava sempre Gesù di liberarla. "Almeno per qualche focaccia di cipolla (cotzula de chibudda in sardo) che ci ha cucinato". Gesù allora disse: Va bene, ecco uno stelo di cipolla (unu serione de chibudda), fallo scendere nell'Inferno e vedi se riesce a venire fuori con questo. San Pietro subito, tutto contento, calò lo stelo di cipolla e disse alla madre di aggrapparvisi in modo da tirarla su. Lei non se lo fece ripetere due volte, e subito con grandi sbuffi e oja qui e oja là iniziò a salire. Ma a quel punto succede che anche tutte le altre anime vogliono aggrapparsi allo stelo e si affannano dietro alla mamma di San Pietro. Vedendo ciò e temendo che l'esile stelo non potesse reggere il peso, la donna inizia a scalciare e inveire contro le altre anime. Ma facendo ciò lo stelo si spezza e la donna ricade per sempre nell'Inferno. San Pietro, sconsolato, riferisce l'accaduto a Gesù, il quale per consolarlo gli dice che almeno sarà menzionata nella messa. Donna Bisodia o Donna Peronia sono i nomi con cui è conosciuta la madre di San Pietro nella tradizione popolare, derivati dal ... latino latinorum "dona nobis hodie" e "per omnia (secula seculorum)". Viene citata anche da Antonio Gramsci in una delle sue Lettere dal Carcere alla sorella Teresina: "...le beghine ripetono il latino delle preghiere contenute nella Filotea: ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater Noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c'era ancora un po' di religione in questo mondo. - Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a modello ..." lettera del 16 novembre 1931. La cipollina è una racconto simile alla versione sarda (ma senza riferimenti ai personaggi del Vangelo), che ritroviamo in un dialogo tra Grušenka e Aleksej ne "I fratelli Karamazov. Non lo riporto qui per non ripetere la storia, ma anche per invitarvi alla ricerca nel grande capolavoro di Dostoevskij! E' una storia popolare molto diffusa in Sardegna (che qui ho riferito in una versione molto breve), ma molto conosciuta in tutta Europa, catalogata al n. 804 dall'indice internazionale Aarne Thompson. La comparazione tra varianti è un lavoro che ogni storyteller professionista compie per una conoscenza approfondita della storia, soprattutto quando la tradizione ci perviene in modo frammentario. Allora arrivano in aiuto storie da altre culture e da altri storytellers a completare le parti mancanti. Si procede ad un vero e proprio lavoro di raffronto e ricostruzione, così come fa un archeologo con i frammenti dei vasi. Bibliografia e consigli per l'ascolto: Dominique Blanc legge "Les plus beaux Contes Zen" a cura di Henry Brunel, ed. Fremeaux Fedor Dostoevskij "I fratelli Karamazov", varie edizioni, ora anche audiolibro (consiglio la lettura di Claudio Carini) Per chi capisce il sardo: trasmissione radiofonica "Custu est su contu" puntata n. 16 - Rai Radio Sardegna - condotta da me in compagnia del grande maestro Franco Enna, autore di "Contos de foghile". ................................................................................................................................................................. Grazie per avermi letto fin qui, vi invito ad inviarmi i vostri commenti, riflessioni, approfondimenti qui oppure alla mail enedin@gmail.com ![]()
Sono molto felice di essere parte della RED Internacional de Cuentacuentos, rete internazionale di storytellers, 1300 narratori e narratrici distribuiti in 62 paesi.
E' sempre fondamentale poter conoscersi e confrontarsi tra colleghi, e ancor più in questo momento in cui le attività artistiche subiscono un nuovo fermo a causa della pandemia. Il sito del network offre anche moltissime risorse, tra storie, materiali, bibliografia, video, festival, blog, ed è fantastico poter vedere quanto sia viva ed effervescente la scena contemporanea della narrazione orale. Mentre scorrevo i contenuti del sito, ho trovato questa bellissima testimonianza dello scrittore cinese Mo Yan, tratta dal suo discorso in occasione della consegna del premio Nobel: Una volta un narratore è venuto al mercato e io sono sgattaiolato via per ascoltarlo. Mia madre non era contenta di me per aver trascurato le mie faccende. Ma quella notte, mentre cuciva vestiti imbottiti per noi sotto la debole luce di una lampada a cherosene, non potei trattenermi dal raccontare le storie che avevo sentito quel giorno. Dapprima ascoltò spazientita, poiché ai suoi occhi i narratori professionisti erano uomini dalla parlantina facile e con una professione incerta. Non usciva mai niente di buono dalle loro bocche. Ma lentamente si lasciò trascinare dal racconto delle storie e da quel giorno in poi non mi diede più lavori domestici il giorno di mercato, un permesso tacito di andare al mercato e ascoltare nuove storie. Come ricompensa per la gentilezza di mia madre e per dimostrare la mia memoria, le raccontavo le storie con vividi dettagli. Non ci volle molto per trovare insoddisfacente raccontare le storie di qualcun altro, quindi ho iniziato ad abbellire la mia narrazione. Dicevo cose che sapevo sarebbero piaciute alla mamma, persino cambiavo il finale di tanto in tanto. E lei non era l'unico membro del mio pubblico, che in seguito incluse le mie sorelle maggiori, le mie zie, persino mia nonna materna. A volte, dopo che mia madre aveva ascoltato una delle mie storie, mi chiedeva con voce piena di premura, quasi a se stessa: "Come sarai da grande, figliolo? Non è che ti guadagnerai da vivere con le chiacchiere?" . Mo Yan, da condizioni umilissime, impara a raccontare storie, poi diventa scrittore, e nel 2012 riceve il premio Nobel per la Letteratura. Che storia! Grazie! Muchas Gracias! a CuentaCuentos e alla sua rete di Storytellers!
![]() Con il periodo di fine ottobre e inizio novembre salutiamo l'ingresso nella metà oscura dell'anno. Halloween, Samhain, Dias de Los Muertos ...Tradizioni precristiane e cristiane concordano, le feste e i rituali si intrecciano e accompagnano il diminuire della luce solare e il necessario riposo della terra dopo la stagione dei raccolti. Sono anche i giorni in cui ci dedichiamo alla memoria dei defunti, come se in questo particolare momento dell'anno sia più sottile il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Tanti sono i generi di racconti che possiamo citare per questo periodo (racconti di spiriti, fantasmi, revenants, il ciclo gaelico di Jack e il diavolo), ma in questo post vorrei concentrarmi sui racconti della discesa agli Inferi, topos letterario che ha attraversato le epoche fino a noi. Sicuramente la mente va subito ai viaggi di Ulisse, Enea, Dante ... ma i racconti più antichi sono tutti al femminile! La discesa nella parte oscura (Ade, Inferi, Averno, Orco, Tartaro), almeno per la nostra cultura mediterranea-mediorientale, è rappresentata in forma simbolica nel mito di Demetra e Persefone. Demetra, dea delle messi e dell'agricoltura, ma incarnazione di una più antica divinità della terra, cerca per nove giorni e nove notti la figlia Persefone, finché scopre che è stata rapita da Ade, il dio degli Inferi. Prima che la madre riesca a liberarla, Persefone ha mangiato sei chicchi di melograno, e questo gesto le impedisce di uscire dagli Inferi. Demetra lascia l'Olimpo e fa scendere sulla terra una terribile siccità, inaridendo tutti i raccolti. Alla fine, ci si accorderà perché Persefone possa tornare dalla madre sulla terra per una parte dell'anno, per poi tornare dal suo sposo Ade nell'altra parte, simboleggiando così l'avvicendarsi delle stagioni. Ma c'è un altro racconto più antico di questo ed è la discesa agli Inferi di Inanna, divinità sumera dei cieli e della fecondità della terra, della bellezza e dell'eros. Sono tutte definizioni che adattiamo al nostro modo di percepire le cose; le infinite traduzioni, i passaggi da una civiltà all'altra e la decontestualizzazione ci impediscono probabilmente di comprendere appieno le qualità e la potenza della divinità. Ma ci avviciniamo in qualche misura ad una percezione più profonda quando ascoltiamo il mito in cui la dea dei Cieli si misura con la sorella Ereshkigal, divinità dell'Oltretomba. Per entrarvi deve superare le sette porte e spogliarsi dei suoi sette "Me", princìpi che regolano l'universo fuori da quelle mura. Inanna entrerà nuda nel regno dell'Oltretomba e affronterà il tradimento e poi il giudizio che la condanna a morte. Ma alla fine le sarà accordato di risorgere attraverso l'aspersione di "cibo e acqua della vita". Al suo posto, nella terra dei morti finirà lo sposo infedele Dumuzi, per la metà dell'anno, anche qui a simboleggiare il ciclo delle stagioni. E' un racconto complesso e articolato, molto raffinato nella sua ricchezza di simboli ed allegorie, ritrovato su tavolette d'argilla incise con caratteri cuneiformi di 5000 anni fa (3.400-3000 a.C.), che si intreccia con la più famosa saga di Gilgamesh. La dea dal "cuore immenso" Inanna non ci ha lasciato solo il più antico racconto della discesa agli Inferi, ma anche i più antichi poemi d'amore erotico, dedicato allo sposo Dumuzi. Bibliografia: La Saga di Gilgameš, Traduz. di G.Pettinato, Milano, Mondadori, 2008 Inanna, Signora dal Cuore Immenso, Betty De Shong Meador, Venexia Edizioni 2009 Nel visitare il Museo del Louvre, tra la grande arte statuaria della Grecia Antica, suscitano tenerezza le piccole teche che custodiscono le statuette di terracotta Tanagra del IV sec. a.C. con scene di vita quotidiana e, tra queste, mi sono soffermata in particolare ad osservare questi personaggi intenti a fare il pane. Così mi è tornata alla mente la leggenda del lievito, che qui vi voglio raccontare. In un paese in Sardegna, ad Ozieri per la precisione, c'era una grotta dove viveva una donna vecchia vecchia vecchia, che tutti chiamavano Sa Sabia Sibilla. Ora, era talmente vecchia che Dio, quando aveva creato il mondo, le aveva dato il dono di conoscere tutte le cose. Era insomma una grande sapiente.
Perciò le donne del paese avevano pensato di mandare a scuola dalla Sabia Sibilla le loro bambine. In quel tempo, a scuola le bambine dovevano imparare a saper tessere e filare, rammendare e ricamare, fare il bucato e cucinare e soprattutto ... fare il pane. Come succede ancora oggi, le scolarette ogni tanto portavano a casa i lavoretti fatti a scuola. E quando ritornavano con il pane, tutte le donne rimanevano meravigliate di come fosse buono e fragrante, gonfio e morbido, mentre quello che facevano loro era piatto, arido, e non sapeva di niente. Ora, dovete sapere che tra queste piccole allieve c'era una bambina che si chiamava Mariedda, ed era la figlia di Sant'Anna. Così, la madre un giorno le disse: "Mariedda, guarda un po' com'è che fa questo pane, Sa Sabia Sibilla, deve avere un segreto". E infatti Mariedda aveva capito che Sa Sabia Sibilla insegnava sì, ma non proprio tutto tutto, perché era gelosa dei suoi segreti. La bambina aveva capito che, per imparare dalla sua maestra, non doveva fare tante domande, ma piuttosto doveva stare in silenzio e osservare, osservare tutto attentamente. Così arriva il giorno che a scuola si deve fare il pane: la maestra prende il tavolo di legno utilizzato esclusivamente per fare il pane (sa mesa), poi prende un grande recipiente di terracotta (su conculu, su tianu), poi prende il setaccio (su sedatu) e vi versa la farina (sa podda) in modo che formi come una collina e poi con la mano forma come un piccolo cratere in cima alla farina. A Mariedda non sfugge nulla e vede che, a questo punto, Sa Sabia Sibilla va verso una credenza, prende una tazzina e ne tira fuori una piccola palla di pasta, la fa sciogliere delicatamente in una ciotola di acqua tiepida e poi versa il tutto in cima alla collinetta di farina. "Ecco cos'è il segreto, deve essere proprio nella pallina di pasta, il segreto", pensò Mariedda. Poi la maestra prepara l'impasto e dice: "Ecco questa è la pasta madre (sa madrighe), lasciamola riposare". Dopo, anche le bambine iniziano tutte ad impastare. Era la parte che piaceva di più alle piccole alunne, mettere le mani nella pasta e lavorarla era divertente, ma diventava man mano sempre più pesante, e la maestra le incitava o le rimproverava perché dovevano essere energiche e non perdere il ritmo ... suìghere, cummassare, cariare ... Poi davano la forma al pane e lo preparavano per essere lasciato a riposare nelle ceste in candidi teli di lino. Le bambine andavano ogni tanto a spiare la pasta che lentamente si gonfiava e aumentava di volume. Intanto Mariedda non si era mica distratta. Vede che dei pezzetti della piccola palla di pasta erano rimasti sulla mesa. Segretamente li prende e li nasconde sotto l'ascella. E' in questo modo che riesce a portarli dalla mamma Sant'Anna. Alla quale poi spiega per filo e per segno cosa deve fare e senza dimenticare che alla fine della lavorazione un'altra pallina di pasta deve essere conservata nella credenza. Fu così che la nostra Mariedda carpì il segreto del lievito (su fremmentalzu, su frammentu) alla Sabia Sibilla e poi Sant'Anna lo donò a tutte le donne, ma ad una condizione: che anche loro lo donassero ad altre donne. E così in Sardegna la tradizione vuole che il lievito, come il fuoco o l'acqua, non si possa mai rifiutare a qualcuno che lo chiede. Si racconta che persino le janas, le fate della Sardegna, non conoscono il segreto del lievito e vanno a chiederlo in prestito "alle donne di malomondo". Ho raccontato questa storia moltissime volte per "Fiabe a Merenda", davanti a tanti bambini e bambine e i loro genitori e nonni. Attraverso la narrazione orale, le storie "lievitano", si gonfiano, si arricchiscono, si ammorbidiscono per adattarsi all'uditorio. Ho pensato tante volte che l'ascolto partecipe sia proprio come il lievito. Potreste provare anche voi a raccontare questa storia, adattandola al vostro contesto. E' molto bello quando gli ascoltatori partecipano con i loro ricordi e riemergono alla memoria gesti e parole di tanto tempo fa. Nella tradizione contadina la lavorazione del pane era circondata da un'atmosfera sacra, tutto si faceva in silenzio, alle prime ore del mattino, tutto era candido e pulito, c'erano oggetti e ambienti che venivano usati solo per il pane. Dall'ascolto di questa storia possono venir fuori tante belle conversazioni, ricordi, confronti tra una generazione e l'altra. Partendo magari da quelle piccole statuine greche del IV secolo ... E che questo tempo di attesa (inverno 2020), sia per noi come il lievito per il pane. (Questa è una mia personale interpretazione di una storia dal titolo "Su contadu de sa Sabia Sibilla" raccontata da Bonaria Manca e registrata da Maria Manunta per la sua tesi di laurea nel 1974 presso Università di Cagliari, pubblicata dall'associazione Archivi del Sud nel CD "Contami unu Contu" vol. I Logudoro, 1996). ![]() Che cosa c’entra Jean-Paul Sartre con le fate? Lui, il filosofo del materialismo storico, lo scrittore esistenzialista, il grande intellettuale del Café Flore, punto di riferimento della generazione sessantottina. Possibile che si sia occupato di fate, fiabe e quisquilie di questo genere? Ma anche Sartre è stato un bambino, e nel suo libro autobiografico “Les Mots”, edito da Gallimard nel 1964, vi sono due pagine meravigliose (40-41) in cui si confrontano due modi diversi di incontrare le fiabe: da una parte la narrazione orale, dall’altra la lettura ad alta voce. Si tratta di un documento molto interessante, dove lo scrittore racconta le modificazioni che la stessa fiaba può subire nel passaggio dalla forma orale a quella scritta e soprattutto rivela il punto di vista del bambino. Sartre rievoca i momenti in cui la giovane madre, che nel libro chiama con il suo nome Anne-Marie, si dedica al racconto delle fiabe. Ma ad un certo punto qualcosa cambia ... "Non sapevo ancora leggere, ma ero abbastanza snob per pretendere di avere i miei libri. Mio nonno si recò dal suo editore e si fece dare Les Contes del poeta Maurice Bouchor, racconti tratti dal folklore e adattati al gusto dell'infanzia da un uomo che aveva conservato, diceva lui, occhi da bambino. Volli incominciare subito le cerimonie di appropriazione. Presi i due piccoli volumi, li annusai, li palpai, li aprii con indifferenza "alla pagina giusta" facendoli scricchiolare. Fu tutto vano: non avevo la sensazione di possederli. Provai ancora senza successo a trattarli come bambole, cullandoli, abbracciandoli, picchiandoli. Quasi in lacrime, finii per deporli sulle ginocchia di mia madre. Lei sollevò gli occhi dal suo lavoro: "Che cosa vuoi che ti legga, tesoro? Le Fate?"[1]. Chiesi incredulo: "Le Fate, sono là dentro?". Quella storia mi era familiare, mia madre me la raccontava spesso, quando mi lavava, interrompendosi per frizionarmi con l'acqua di colonia, per andare a raccogliere il sapone caduto sotto la vasca, e io ascoltavo distrattamente il racconto ben noto; avevo occhi solo per Anne-Marie, la fanciulla di tutte le mie mattine; avevo orecchie solo per la sua voce offuscata dalla sottomissione; mi sentivo bene con le sue frasi incompiute, con le sue parole sempre in ritardo, con la sua brusca sicurezza, che subito veniva meno capovolgendosi in una disfatta per sparire in una sfilacciata melodia e ricomporsi dopo un silenzio. La storia, era lì quasi per caso. Era il legame per i suoi soliloqui. Per tutto il tempo che lei parlava noi eravamo soli e clandestini, lontano dagli uomini, dagli dei e dai preti, due cerve nel bosco, con quelle altre cerve, le Fate; non potevo credere che si fosse potuto scrivere tutto un libro per rappresentarvi questo episodio della nostra vita profana che sapeva di sapone e di acqua di colonia. Anne-Marie mi fece sedere di fronte a lei, sulla mia seggiolina; si chinò, abbassò le palpebre, si addormentò. Da quel viso di statua uscì una voce di gesso. Mi sentii smarrito: chi raccontava? Che cosa? E a chi? Mia madre si era assentata: non un sorriso, non un segno di complicità, ero in esilio. E poi non riconoscevo il linguaggio. Da dove tirava fuori quella sicurezza? All'improvviso capii: era il libro che parlava. Ne uscivano fuori delle frasi che mi spaventavano: era dei veri e propri millepiedi, brulicavano di sillabe e di lettere, stiravano i dittonghi, facevano vibrare le consonanti doppie; canterine, sonore, inframmezzate di pause e sospiri, ricche di parole sconosciute, procedevano nell'incanto di se stesse e nei loro meandri senza preoccuparsi di me: talvolta sparivano prima che avessi potuto afferrarne il senso, altre volte avevo già capito, ma loro continuavano ad estendersi con eleganza verso la loro fine senza neanche concedermi la grazia di una virgola. Ero sicuro, quel discorso non era destinato a me. Quanto alla storia, si era vestita a festa: il boscaiolo, la moglie e le loro figlie, la fata, tutte quelle personcine, nostri simili, avevano acquisito maestosità; si parlava dei loro stracci con magnificenza, le parole opprimevano le cose, trasformando le azioni in riti e gli avvenimenti in cerimonie. Qualcuno si mise a fare domande: l'editore di mio nonno, specializzato nella pubblicazione di opere scolastiche, non perdeva occasione per esercitare la giovane intelligenza dei suoi lettori. Ebbi l'impressione che le domande fossero rivolte ad un bambino: che cosa avrebbe fatto al posto del boscaiolo? Quale delle due sorelle preferiva? Perché? Approvava il castigo di Babette? Ma quel bambino non ero affatto io e avevo paura di rispondere. E tuttavia risposi, la mia fragile voce si smarrì e mi sentii un altro. Anche Anne-Marie era un'altra, con la sua aria da cieca iperveggente: avevo la sensazione di essere il figlio di ogni madre e lei la madre di ogni figlio. Quando smise di leggere, le tolsi subito i libri e me li portai via senza dire grazie". (mia traduzione) Il legame di intimità stabilito dalla narrazione orale si dissolve di fronte alla voce "di gesso" della lettura. Non si vuole con questo suggerire che la narrazione orale sia da preferire alla lettura ad alta voce, ma si tratta di due modalità molto diverse, che spesso vengono confuse o si pensa siano più o meno la stessa cosa. Ad allontanare ancora di più il bambino che ascolta dalla voce che legge c'è quella manìa di certi editori di "libri per l'infanzia" di riscrivere i testi popolari in uno stile letterario, credendo di abbellirli. E per finire, non bastasse la "morale", ci sono anche le domande per verificare la comprensione del testo. Ecco come far svanire le fate. Per questo, si dice, non le si vede più nel nostro mondo... [1] “Les Fées” è una delle fiabe contenute nella famosa raccolta di Charles Perrault, Contes de ma mère l’Oye, ed è una delle più note ai bambini europei. Due bambine vanno dalle fate: la prima, buona e generosa, riceverà dei doni, mentre la seconda, pigra e sgarbata, sarà punita. ![]() Quanto sono antichi i racconti popolari giunti fino a noi attraverso la trasmissione orale e poi la scrittura? Da quanto tempo gli esseri umani "raccontano"? E' un tema che ha sempre appassionato i cercatori di storie. Indagini che hanno portato indietro nel tempo fino a 30.000/70.000 anni fa almeno, fino al tempo della rivoluzione cognitiva, secondo quanto ricostruisce l'eclettico studioso Y. N. Harari nel suo saggio "Sapiens. Da Animali a dèi" (edizione italiana Bompiani, 2017). La capacità dei Sapiens di sviluppare un linguaggio particolarmente duttile e poi di comunicare non solo sulla realtà, ma anche su cose che non esistono affatto, segna il punto di svolta di una rivoluzione che porterà la nostra specie a dominare sugli altri animali. La rivoluzione cognitiva si attua quando i nostri progenitori iniziano non solo a scambiarsi informazioni utili ("C'è un leone nell'ansa del fiume"), ma anche a formulare comunicazioni come "Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù", a cui i membri della tribù credono. ![]() Un altro passo in avanti, è il piacere di parlare per parlare, la chiacchiera, anzi ancora meglio il gossip, il pettegolezzo. Secondo gli studiosi, questa brutta abitudine di parlare dei fatti degli altri è alla base dello sviluppo del linguaggio come legame sociale. E dal momento che i Sapiens sono animali sociali per eccellenza, avendo capito che solo formando comunità sempre più estese e coese sarebbero riusciti a superare le oggettive condizioni di inferiorità rispetto ad altre specie, ecco che sviluppano la creazione e la propagazione di miti, storie su fatti che non esistono nella realtà, ma che tengono insieme tutti coloro che ci credono. Dai tempi dell'uomo-leone della grotta di Stadel in Germania (32.000 anni fa), ma molto probabilmente ancora prima, gli umani sono capaci di creare una realtà fantastica attraverso il linguaggio. Sono talmente tenaci queste credenze basate sui racconti fantastici che hanno attraversato migliaia di anni, diffondendosi solo attraverso la voce. I grandi miti, le epopee e le saghe, ma anche i più umili aneddoti, storielle salaci, fiabe popolari, si sono propagati insieme al diffondersi dell'Homo Sapiens in tutti i continenti e sono arrivati fino a noi solo in tempi recentissimi attraverso la scrittura e poi su altri nuovi mezzi di comunicazione. Se dovessimo srotolare un gomitolo del tempo di 30.000 anni, e suddividerlo in 30 parti che rappresentano ognuna 1000 anni, vedremmo che solo nelle ultime sezioni compare la scrittura: i racconti più antichi, come il ciclo di Gilgamesh, sono stati fissati su tavolette d'argilla circa 3000 anni fa. Ma la loro propagazione orale è certamente più antica. E se parliamo di fiabe, dobbiamo attendere l'interesse delle corti del Seicento o dei glottologi ottocenteschi per vedere pubblicate le prime raccolte. Per quanto oggi l'oralità possa apparire effimera e volatile nella trasmissione di informazioni (abbiamo infatti sempre bisogno di annotare o registrare su un supporto cartaceo o digitale), in realtà essa è il mezzo più certo e duraturo per trasmettere informazioni importanti nel tempo, se parliamo su una scala temporale di migliaia di anni. E' quanto dimostra Umberto Eco nel suo saggio "La Memoria Vegetale" (Bompiani 2011). Per questo gli/le storytellers erano sacri/e al pari degli/delle sciamani/e. E per questo narratori e narratrici di oggi dovrebbero essere sempre consapevoli, quando raccontano, qualsiasi cosa raccontino, di essere un punto nel filo ininterrotto fatto di voci e parole, sussurrate e gridate, di uomini e donne che, migliaia di anni prima di noi su questa terra. hanno voluto condividere con noi sogni, paure, desideri in forma di racconto. Il gomitolo del tempo accanto ad un'opera di Maria Lai, La porta delle Janas (1995)
![]() Divinità ed eroi affrontano la discesa agli Inferi, ma ritrovano sempre la strada per ritornare. Nelle antiche storie tramandate oralmente dalla notte dei tempi si racconta anche dei comuni mortali che finiscono all'Inferno e che, per niente contenti, vorrebbero ritornare indietro, ritenendo la punizione ingiusta. Ho trovato traccia delle varianti di questo mito in Sardegna, nei racconti del Buddha e perfino nel romanzo "I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Perciò se avete tempo, seguitemi in questa appassionante ricerca. Partirò con il raccontarvi la leggenda buddhista: la riporto a memoria, così come la ricordo, dopo averla ascoltata tanti anni fa nella magnifica lettura di Dominique Blanc: Buddha e la corda d'argento "Un giorno, in un chiaro mattino, il Buddha passeggiava sulle rive del lago Fiore di Loto, assorto nella sua meditazione. Quando, sporgendosi sull'acqua e guardando nelle profondità del Naraka, la sua attenzione fu attirata da un uomo che vi si dibatteva furiosamente e sembrava chiedere aiuto. Subito lo riconobbe: era Kantuka, lo aveva incontrato in vita. Lo conosceva bene, era un ladro e un miserabile assassino. Ma il Buddha è l'infinita compassione. Ricordò che una volta Kantuka aveva fatto un gesto di bontà, allontanando dal suo sandalo un ragno, anziché schiacciarlo. Così, in ricordo di quel gesto, il Buddha decise di dare all'uomo una possibilità. prese un filo di ragnatela e lo calò nell'acqua. Nella discesa il filo di ragno si trasformò in corda d'argento e arrivò davanti a Kantuka, il quale subito capì che gli era stata concessa la possibilità di salvarsi. Immediatamente afferrò la corda e, con tutta la forza di cui era capace, vi si avvinghiò mani e piedi per intraprendere la salita. Ma come lui, anche tutte le altre creature condannate al Naraka naturalmente ebbero la stessa idea e tutte vollero seguirlo sulla corda d'argento. Vedendo ciò e temendo che l'esile corda si spezzasse, Kantuka fece per estrarre un pugnale che conservava ancora con sé per recidere la corda sotto di lui. Ma ebbe solo il tempo di pensare quel gesto che la corda si spezzò sopra di lui e ricadde per sempre nel Naraka". Nella versione sarda, la corda d'argento è un più umile stelo di cipolla e la protagonista è La mamma di San Pietro "Quando Gesù era nel mondo e andava in giro con i suoi apostoli, la mamma di San Pietro non lo poteva sopportare. Era una donna davvero cattiva, si dice che fosse una fattucchiera (una majarza in sardo), e cercò più volte di colpire Gesù con le sue magie, ma naturalmente senza successo. Insomma, alla fine sappiamo come andarono le cose, San Pietro andò in Paradiso con Gesù e sua madre invece nell'Inferno! Questo San Pietro non lo poteva accettare e pregava sempre Gesù di liberarla. "Almeno per qualche focaccia di cipolla (cotzula de chibudda in sardo) che ci ha cucinato". Gesù allora disse: Va bene, ecco uno stelo di cipolla (unu serione de chibudda), fallo scendere nell'Inferno e vedi se riesce a venire fuori con questo. San Pietro subito, tutto contento, calò lo stelo di cipolla e disse alla madre di aggrapparvisi in modo da tirarla su. Lei non se lo fece ripetere due volte, e subito con grandi sbuffi e oja qui e oja là iniziò a salire. Ma a quel punto succede che anche tutte le altre anime vogliono aggrapparsi allo stelo e si affannano dietro alla mamma di San Pietro. Vedendo ciò e temendo che l'esile stelo non potesse reggere il peso, la donna inizia a scalciare e inveire contro le altre anime. Ma facendo ciò lo stelo si spezza e la donna ricade per sempre nell'Inferno. San Pietro, sconsolato, riferisce l'accaduto a Gesù, il quale per consolarlo gli dice che almeno sarà menzionata nella messa. Donna Bisodia o Donna Peronia sono i nomi con cui è conosciuta la madre di San Pietro nella tradizione popolare, derivati dal ... latino latinorum "dona nobis hodie" e "per omnia (secula seculorum)". E' una storia popolare molto diffusa in Sardegna (che qui ho riferito in una versione molto breve), citata anche da Antonio Gramsci in una delle sue Lettere dal Carcere alla sorella Teresina: "...le beghine ripetono il latino delle preghiere contenute nella Filotea: ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater Noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c'era ancora un po' di religione in questo mondo. - Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a modello ..." lettera del 16 novembre 1931. La cipollina è una racconto simile alla versione sarda (ma senza riferimenti ai personaggi del Vangelo), che ritroviamo in un dialogo tra Grušenka e Aleksej ne "I fratelli Karamazov. Non lo riporto qui per non ripetere la storia, ma anche per invitarvi alla ricerca nel grande capolavoro di Dostoevskij! La comparazione tra varianti è un lavoro che ogni storyteller professionista compie per una conoscenza approfondita della storia, soprattutto quando la tradizione ci perviene in modo frammentario. Allora arrivano in aiuto storie da altre culture e da altri storytellers a completare le parti mancanti. Si procede ad un vero e proprio lavoro di raffronto e ricostruzione, così come fa un archeologo con i frammenti dei vasi. Bibliografia e consigli per l'ascolto: Dominique Blanc legge "Les plus beaux Contes Zen" a cura di Henry Brunel, ed. Fremeaux Fedor Dostoevskij "I fratelli Karamazov", varie edizioni, ora anche audiolibro (consiglio la lettura di Claudio Carini) Per chi capisce il sardo: trasmissione radiofonica "Custu est su contu" puntata n. 16 - Rai Radio Sardegna - condotta da me in compagnia del grande maestro Franco Enna, autore di "Contos de foghile". ................................................................................................................................................................. Grazie per avermi letto fin qui, vi invito ad inviarmi i vostri commenti, riflessioni, approfondimenti qui oppure alla mail enedin@gmail.com Si fa un gran parlare di 'storytelling', va di moda nei circoli della politica come del business. Ma qui vi parlerò più semplicemente dell'arte antica del raccontare con la voce. Storytelling appunto, ma nella sua accezione originaria, che ci ricollega ai primi esseri umani seduti intorno al fuoco ad inventare storie.
'To tell' o 'Raccontare' o 'Conter' in francese, sono tutte parole che nella loro origine etimologica significano 'contare', 'calcolare'. "Del resto, che cosa si fa quando si racconta se non mettere in ordine, uno dietro l'altro in una sequenza, gli elementi di una storia?" diceva la narratrice Mara Baronti. Raccontare significa dare una forma intelligibile e, in qualche modo, controllare il misterioso e ininterrotto flusso dell'immaginazione che caratterizza la mente dell'homo sapiens. Il legame che si crea attraverso la voce narrante è qualcosa di primordiale, che sta alla base della capacità umana di creare comunità sempre più grandi e complesse. Nessun nuovo mezzo di comunicazione tecnologico è mai riuscito a scalfire il piacere di raccontare e ascoltare storie narrate solo con la voce, dal semplice racconto di un fatto personale tra amici alle forme più elaborate e rituali, come la narrazione di fiabe ai nostri bambini. In questo blog vi parlerò della narrazione orale come arte performativa, lo spettacolo per voce sola che racconta e crea visioni, apre sentieri, spalanca le porte dell'immaginazione. |
AuthorColtivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi. Archives
April 2023
Categories |
Site powered by Weebly. Managed by SiteGround