![]() Che cosa c’entra Jean-Paul Sartre con le fate? Lui, il filosofo del materialismo storico, lo scrittore esistenzialista, il grande intellettuale del Café Flore, punto di riferimento della generazione sessantottina. Possibile che si sia occupato di fate, fiabe e quisquilie di questo genere? Ma anche Sartre è stato un bambino, e nel suo libro autobiografico “Les Mots”, edito da Gallimard nel 1964, vi sono due pagine meravigliose (40-41) in cui si confrontano due modi diversi di incontrare le fiabe: da una parte la narrazione orale, dall’altra la lettura ad alta voce. Si tratta di un documento molto interessante, dove lo scrittore racconta le modificazioni che la stessa fiaba può subire nel passaggio dalla forma orale a quella scritta e soprattutto rivela il punto di vista del bambino. Sartre rievoca i momenti in cui la giovane madre, che nel libro chiama con il suo nome Anne-Marie, si dedica al racconto delle fiabe. Ma ad un certo punto qualcosa cambia ... "Non sapevo ancora leggere, ma ero abbastanza snob per pretendere di avere i miei libri. Mio nonno si recò dal suo editore e si fece dare Les Contes del poeta Maurice Bouchor, racconti tratti dal folklore e adattati al gusto dell'infanzia da un uomo che aveva conservato, diceva lui, occhi da bambino. Volli incominciare subito le cerimonie di appropriazione. Presi i due piccoli volumi, li annusai, li palpai, li aprii con indifferenza "alla pagina giusta" facendoli scricchiolare. Fu tutto vano: non avevo la sensazione di possederli. Provai ancora senza successo a trattarli come bambole, cullandoli, abbracciandoli, picchiandoli. Quasi in lacrime, finii per deporli sulle ginocchia di mia madre. Lei sollevò gli occhi dal suo lavoro: "Che cosa vuoi che ti legga, tesoro? Le Fate?"[1]. Chiesi incredulo: "Le Fate, sono là dentro?". Quella storia mi era familiare, mia madre me la raccontava spesso, quando mi lavava, interrompendosi per frizionarmi con l'acqua di colonia, per andare a raccogliere il sapone caduto sotto la vasca, e io ascoltavo distrattamente il racconto ben noto; avevo occhi solo per Anne-Marie, la fanciulla di tutte le mie mattine; avevo orecchie solo per la sua voce offuscata dalla sottomissione; mi sentivo bene con le sue frasi incompiute, con le sue parole sempre in ritardo, con la sua brusca sicurezza, che subito veniva meno capovolgendosi in una disfatta per sparire in una sfilacciata melodia e ricomporsi dopo un silenzio. La storia, era lì quasi per caso. Era il legame per i suoi soliloqui. Per tutto il tempo che lei parlava noi eravamo soli e clandestini, lontano dagli uomini, dagli dei e dai preti, due cerve nel bosco, con quelle altre cerve, le Fate; non potevo credere che si fosse potuto scrivere tutto un libro per rappresentarvi questo episodio della nostra vita profana che sapeva di sapone e di acqua di colonia. Anne-Marie mi fece sedere di fronte a lei, sulla mia seggiolina; si chinò, abbassò le palpebre, si addormentò. Da quel viso di statua uscì una voce di gesso. Mi sentii smarrito: chi raccontava? Che cosa? E a chi? Mia madre si era assentata: non un sorriso, non un segno di complicità, ero in esilio. E poi non riconoscevo il linguaggio. Da dove tirava fuori quella sicurezza? All'improvviso capii: era il libro che parlava. Ne uscivano fuori delle frasi che mi spaventavano: era dei veri e propri millepiedi, brulicavano di sillabe e di lettere, stiravano i dittonghi, facevano vibrare le consonanti doppie; canterine, sonore, inframmezzate di pause e sospiri, ricche di parole sconosciute, procedevano nell'incanto di se stesse e nei loro meandri senza preoccuparsi di me: talvolta sparivano prima che avessi potuto afferrarne il senso, altre volte avevo già capito, ma loro continuavano ad estendersi con eleganza verso la loro fine senza neanche concedermi la grazia di una virgola. Ero sicuro, quel discorso non era destinato a me. Quanto alla storia, si era vestita a festa: il boscaiolo, la moglie e le loro figlie, la fata, tutte quelle personcine, nostri simili, avevano acquisito maestosità; si parlava dei loro stracci con magnificenza, le parole opprimevano le cose, trasformando le azioni in riti e gli avvenimenti in cerimonie. Qualcuno si mise a fare domande: l'editore di mio nonno, specializzato nella pubblicazione di opere scolastiche, non perdeva occasione per esercitare la giovane intelligenza dei suoi lettori. Ebbi l'impressione che le domande fossero rivolte ad un bambino: che cosa avrebbe fatto al posto del boscaiolo? Quale delle due sorelle preferiva? Perché? Approvava il castigo di Babette? Ma quel bambino non ero affatto io e avevo paura di rispondere. E tuttavia risposi, la mia fragile voce si smarrì e mi sentii un altro. Anche Anne-Marie era un'altra, con la sua aria da cieca iperveggente: avevo la sensazione di essere il figlio di ogni madre e lei la madre di ogni figlio. Quando smise di leggere, le tolsi subito i libri e me li portai via senza dire grazie". (mia traduzione) Il legame di intimità stabilito dalla narrazione orale si dissolve di fronte alla voce "di gesso" della lettura. Non si vuole con questo suggerire che la narrazione orale sia da preferire alla lettura ad alta voce, ma si tratta di due modalità molto diverse, che spesso vengono confuse o si pensa siano più o meno la stessa cosa. Ad allontanare ancora di più il bambino che ascolta dalla voce che legge c'è quella manìa di certi editori di "libri per l'infanzia" di riscrivere i testi popolari in uno stile letterario, credendo di abbellirli. E per finire, non bastasse la "morale", ci sono anche le domande per verificare la comprensione del testo. Ecco come far svanire le fate. Per questo, si dice, non le si vede più nel nostro mondo... [1] “Les Fées” è una delle fiabe contenute nella famosa raccolta di Charles Perrault, Contes de ma mère l’Oye, ed è una delle più note ai bambini europei. Due bambine vanno dalle fate: la prima, buona e generosa, riceverà dei doni, mentre la seconda, pigra e sgarbata, sarà punita.
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AuthorColtivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi. Archives
March 2022
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