Nel visitare il Museo del Louvre, tra la grande arte statuaria della Grecia Antica, suscitano tenerezza le piccole teche che custodiscono le statuette di terracotta Tanagra del IV sec. a.C. con scene di vita quotidiana e, tra queste, mi sono soffermata in particolare ad osservare questi personaggi intenti a fare il pane. Così mi è tornata alla mente la leggenda del lievito, che qui vi voglio raccontare. In un paese in Sardegna, ad Ozieri per la precisione, c'era una grotta dove viveva una donna vecchia vecchia vecchia, che tutti chiamavano Sa Sabia Sibilla. Ora, era talmente vecchia che Dio, quando aveva creato il mondo, le aveva dato il dono di conoscere tutte le cose. Era insomma una grande sapiente.
Perciò le donne del paese avevano pensato di mandare a scuola dalla Sabia Sibilla le loro bambine. In quel tempo, a scuola le bambine dovevano imparare a saper tessere e filare, rammendare e ricamare, fare il bucato e cucinare e soprattutto ... fare il pane. Come succede ancora oggi, le scolarette ogni tanto portavano a casa i lavoretti fatti a scuola. E quando ritornavano con il pane, tutte le donne rimanevano meravigliate di come fosse buono e fragrante, gonfio e morbido, mentre quello che facevano loro era piatto, arido, e non sapeva di niente. Ora, dovete sapere che tra queste piccole allieve c'era una bambina che si chiamava Mariedda, ed era la figlia di Sant'Anna. Così, la madre un giorno le disse: "Mariedda, guarda un po' com'è che fa questo pane, Sa Sabia Sibilla, deve avere un segreto". E infatti Mariedda aveva capito che Sa Sabia Sibilla insegnava sì, ma non proprio tutto tutto, perché era gelosa dei suoi segreti. La bambina aveva capito che, per imparare dalla sua maestra, non doveva fare tante domande, ma piuttosto doveva stare in silenzio e osservare, osservare tutto attentamente. Così arriva il giorno che a scuola si deve fare il pane: la maestra prende il tavolo di legno utilizzato esclusivamente per fare il pane (sa mesa), poi prende un grande recipiente di terracotta (su conculu, su tianu), poi prende il setaccio (su sedatu) e vi versa la farina (sa podda) in modo che formi come una collina e poi con la mano forma come un piccolo cratere in cima alla farina. A Mariedda non sfugge nulla e vede che, a questo punto, Sa Sabia Sibilla va verso una credenza, prende una tazzina e ne tira fuori una piccola palla di pasta, la fa sciogliere delicatamente in una ciotola di acqua tiepida e poi versa il tutto in cima alla collinetta di farina. "Ecco cos'è il segreto, deve essere proprio nella pallina di pasta, il segreto", pensò Mariedda. Poi la maestra prepara l'impasto e dice: "Ecco questa è la pasta madre (sa madrighe), lasciamola riposare". Dopo, anche le bambine iniziano tutte ad impastare. Era la parte che piaceva di più alle piccole alunne, mettere le mani nella pasta e lavorarla era divertente, ma diventava man mano sempre più pesante, e la maestra le incitava o le rimproverava perché dovevano essere energiche e non perdere il ritmo ... suìghere, cummassare, cariare ... Poi davano la forma al pane e lo preparavano per essere lasciato a riposare nelle ceste in candidi teli di lino. Le bambine andavano ogni tanto a spiare la pasta che lentamente si gonfiava e aumentava di volume. Intanto Mariedda non si era mica distratta. Vede che dei pezzetti della piccola palla di pasta erano rimasti sulla mesa. Segretamente li prende e li nasconde sotto l'ascella. E' in questo modo che riesce a portarli dalla mamma Sant'Anna. Alla quale poi spiega per filo e per segno cosa deve fare e senza dimenticare che alla fine della lavorazione un'altra pallina di pasta deve essere conservata nella credenza. Fu così che la nostra Mariedda carpì il segreto del lievito (su fremmentalzu, su frammentu) alla Sabia Sibilla e poi Sant'Anna lo donò a tutte le donne, ma ad una condizione: che anche loro lo donassero ad altre donne. E così in Sardegna la tradizione vuole che il lievito, come il fuoco o l'acqua, non si possa mai rifiutare a qualcuno che lo chiede. Si racconta che persino le janas, le fate della Sardegna, non conoscono il segreto del lievito e vanno a chiederlo in prestito "alle donne di malomondo". Ho raccontato questa storia moltissime volte per "Fiabe a Merenda", davanti a tanti bambini e bambine e i loro genitori e nonni. Attraverso la narrazione orale, le storie "lievitano", si gonfiano, si arricchiscono, si ammorbidiscono per adattarsi all'uditorio. Ho pensato tante volte che l'ascolto partecipe sia proprio come il lievito. Potreste provare anche voi a raccontare questa storia, adattandola al vostro contesto. E' molto bello quando gli ascoltatori partecipano con i loro ricordi e riemergono alla memoria gesti e parole di tanto tempo fa. Nella tradizione contadina la lavorazione del pane era circondata da un'atmosfera sacra, tutto si faceva in silenzio, alle prime ore del mattino, tutto era candido e pulito, c'erano oggetti e ambienti che venivano usati solo per il pane. Dall'ascolto di questa storia possono venir fuori tante belle conversazioni, ricordi, confronti tra una generazione e l'altra. Partendo magari da quelle piccole statuine greche del IV secolo ... E che questo tempo di attesa (inverno 2020), sia per noi come il lievito per il pane. (Questa è una mia personale interpretazione di una storia dal titolo "Su contadu de sa Sabia Sibilla" raccontata da Bonaria Manca e registrata da Maria Manunta per la sua tesi di laurea nel 1974 presso Università di Cagliari, pubblicata dall'associazione Archivi del Sud nel CD "Contami unu Contu" vol. I Logudoro, 1996).
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AuthorColtivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi. Archives
March 2022
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