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Il ritmo di una cultura - Pasqua 2021

4/4/2021

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​Fede popolare e bellezza nel ritmo culturale che accompagna il ciclo naturale delle stagioni

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Fotogramma dal film "Nostalghia" di Andrei Tarkovskij
Ogni anno mia madre, appena dopo l'inizio della Quaresima, mette grano e lenticchie nei piatti antichi, li irrora d'acqua e li sistema sotto le corbule (cesti intrecciati a mano in steli di asfodelo). I grani tenuti all'ombra e costantemente inumiditi germogliano, ma in un modo particolare: il loro stelo si spinge verso l'alto in cerca della luce, mantenendo piccole foglie pallide a causa del buio, che impedisce la sintesi della clorofilla. 
Tutta la famiglia segue la crescita, le nipoti vanno a controllare sollevando un poco la corbula e si meravigliano, le figlie chiedono come va la crescita, se per Pasqua saranno pronti. Perché poi, questo rito, è tutto femminile. 
All'inizio della settimana santa, i germogli sono alti circa venti centimetri,  vengono adornati con nastri e fiori e portati al "sepolcro", la cappella allestita per i giorni della Passione di Gesù. 
In Sardegna il piatto di germogli così adornato lo chiamiamo "su nènniri" o "su lavoreddu". Si possono rintracciare uguali tradizioni in area mediterranea e balcanica, forse legate insieme dalla chiesa bizantina. Ma è certo che il rituale affonda radici in età precristiana, fino alla Grecia antica e ancora più indietro, alle prime civiltà agricole. Il controllo dei semi e della crescita, in questo caso costretta all'assenza di luce, tutto sotto la regia di mani femminili, ci porta verso gli albori dell'agricoltura. 
Tratti pagani sopravvivono anche nei rituali cristiani praticati in Sardegna fino a poco tempo fa: si racconta che su nènniri si portava in campagna e si spezzava sul terreno, come auspicio per il buon raccolto.
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Nènniri di Peppina Fancellu, Pasqua 2021
​Riguardo questa tradizione, si rammentano i "giardini di Adone",  in onore al dio morto giovane. 

Ma vale anche ciò che rappresenta per noi, nel nostro presente, questo rito e il suo ritmo. Tra il "memento mori" del mercoledì delle ceneri e la rinascita della Pasqua, c'è il ripetersi lento e preciso di gesti, c'è l'attesa paziente, la cura e il controllo per la buona riuscita, c'è infine, con l'arrivo della prima luna piena di primavera, l'abbellimento dei fiori per il sepolcro del Dio che ogni anno muore e rinasce. C'è dentro tutto il ritmo di una cultura. 

Il poeta Pierluigi Cappello racconta in Questa libertà il suo incontro con Silvio, il costruttore di gerle: 
"Io, piccolo com'ero, non mi chiedevo affatto da dove venisse quella sequenza di gesti naturalmente sorvegliati, mi accontentavo di seguirne la precisione e la reticenza ... Me lo son chiesto più tardi, da uomo fatto: qualcuno avrà insegnato a Silvio, magari quand'era bambino, perché ai suoi tempi si cominciava a lavorare presto, gli avrà insegnato a intrecciare, a preparare le festuche, a cercare i rami di salice giusti lungo il fiume e anche lui avrà dovuto ripetere, ostinato e devoto, cercando di impossessarsi di un ritmo, finché quel ritmo si sarà impossessato di lui, delle sue mani, delle sue dita. Così, quello che vedevo non era un vecchietto ... ma una cultura al lavoro, risalita dai tempi lungo una catena viva di uomini che l'avevano condotta fin lì, e quelle che agivano non erano mani, ma il ritmo stesso di quella cultura".
(P. Cappello, Questa libertà, Bur Rizzoli, 2016)
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Da Prometeo a Sant'Antonio o come il fuoco arrivò sulla terra

10/1/2021

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E' il momento dell'anno in cui il buio inizia a diminuire, la luce ritorna sulla terra. E si celebra chi ha portato la luce sotto forma di fuoco. Nella cultura classica domina il mito titanico di Prometeo, ma ve n'è un altro molto diffuso in area mediterranea. E i protagonisti sono un santo, un maialino, e il fusto di una pianta particolare ... 

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Copertina pubblicazione (c) Archivi del Sud edizioni 2015
Prometeo, dopo aver modellato gli uomini dalla terra e dall'acqua, diede loro anche il fuoco, all'insaputa di Zeus, nascondendolo in una ferula, racconta il mito greco.
Il fusto della ferula communis  ha un ruolo anche nella leggenda popolare dove si mescolano elementi pagani e cristiani. Un sincretismo religioso che si manifesta anche nel rito associato al santo, celebrato con grandi fuochi, inutilmente osteggiati e poi tollerati dalla Chiesa.
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S. Antonio abate, statua lignea, Cattedrale, Castelsardo
PictureFalò di San'Antonio a Cuglieri 2018 (foto Enedina Sanna)

​Si avvicina il 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate o del fuoco, raffigurato sempre con il suo bastone ed il fedele maialino. Protettore degli animali domestici, era caro anche ad Antonio Gramsci, che aveva preso il nome dal santo, essendo egli nato il 22 gennaio: "... al quale tengo moltissimo per tante ragioni di carattere magico" scrive in una lettera ai familiari.
Vissuto tra il 251 e il 356 d.C. in Egitto, la sua biografia si conosce bene grazie alla testimonianza del suo discepolo Attanasio. Visse oltre cent'anni, in gran parte trascorsi da eremita e venerato già in vita come un santo. 

Ho narrato molte volte la leggenda popolare diffusa in Sardegna e ho introdotto alcune variazioni, suggerite dall'interazione con i piccoli ascoltatori. 
​                                                                              ***
Avrete sicuramente sentito parlare del mito di Prometeo che donò il fuoco agli uomini, dopo averlo rubato agli dèi. In Sardegna raccontiamo un’altra storia. Qui è Sant’Antonio ad aver portato il fuoco sulla terra, con l’aiuto del suo maialino. Ascoltate come andarono le cose.
 
C’è stato un tempo in cui gli uomini non conoscevano il fuoco. O meglio, lo conoscevano, ma non lo possedevano ancora. Riuscite ad immaginare come era dura la vita senza fuoco? (lascio che siano i bambini ad elencare: non ci si poteva riscaldare, non c'era luce per la notte, non si potevano forgiare i metalli, non si poteva cucinare, e così via). 
 
Così, gli uomini, infreddoliti e stanchi di quella misera vita, decisero di andare a chiedere aiuto a Sant’Antonio, che viveva da eremita in una grotta.
Gli uomini vanno a cercarlo, lo chiamano e lui esce dalla sua grotta, accompagnato da un maialino. Perché dovete sapere che Sant’Antonio, prima di essere santo, era porcaro, allevava maiali, e quando aveva deciso di ritirarsi in preghiera, aveva preso con sé un maialino che lo seguiva dappertutto come un cucciolo.
 
Allora, quando gli uomini lo videro arrivare, gli rivolsero queste parole: “Sant’Antonio, facci la carità, siamo uomini della terra, siamo stanchi, abbiamo freddo, fame, procuraci il fuoco”. Il santo provò compassione per quegli uomini e disse:
“Sì, ve lo procuro il fuoco, so io dove trovarlo, dove brucia eterno!”. Dove pensate che vada S. Antonio? (nel vulcano! dicono in coro i bambini. E io non li contraddico, certo. Ma aggiungo che in fondo fondo a questo vulcano, c'è l'Inferno, e così posso continuare la storia, ché se no sarebbe finita qui!).

E Sant’Antonio parte, seguito dal suo fedele maialino che scodinzola come un cane, felice dell’escursione. Prima di partire il santo prende con sé un lungo bastone di ferula.
Ora la ferula è una pianta molto comune in Sardegna nei terreni a pascolo, e questa pianta ha un legno che all’interno è cavo e spugnoso, e questo come vedremo ha la sua importanza per questa storia.
​
Sant’Antonio arriva al grande portale dell’Inferno e con il suo bastone bussò. TOC TOC, toc toc, toc toc, si sente l’eco dentro l’Inferno che si ripete nei gironi che scendono giù verso il centro della terra.
I diavoli non aspettavano visite: “Chi è?” gridano.  “Sono un uomo della terra - dice Sant’Antonio - fatemi entrare un poco a scaldarmi”. Ma i diavoli capiscono subito che quello è un santo e non può entrare nell’Inferno. Cercano di cacciarlo via, ma Sant’Antonio riprende a bussare, TOC TOC, toc toc toc toc …
 
I diavoli allora iniziarono a preoccuparsi che tutto quel bussare non finisse per svegliare il grande capo, Lucifero, che dormiva negli abissi degli inferi. Allora uno di loro si decise ad aprire il portone, ma solo per dire a Sant’Antonio di andarsene. Ebbene, non fece neanche in tempo a dire una parola, che il maialino non appena vede schiudersi il portone, si infilò dentro e incominciò a correre, a gettare uno scompiglio che non si era mai vista tanta confusione nell’Inferno.
I diavoli lo inseguirono, cercarono di acchiapparlo, ma niente, lui sgusciava via, e grugniva, grufolava, tutto eccitato per tutte quelle scintille, il fumo, e le fiamme. Era così felice e pieno di gioia! Un vero scandalo per l'Inferno. Insomma, alla fine i diavoli si videro costretti a tornare al portone dove avevano lasciato Sant’Antonio e lo fecero entrare con l’ordine di riprendere il suo maialino e riportare la calma nell’Inferno.
Detto fatto: bastò toccare il maialino con il bastone di ferula e lui ritornò quieto ai piedi del santo.
 
Ma ormai Sant’Antonio era entrato nell’Inferno e così pregò i diavoli di lasciarlo lì per un po’, giusto il tempo di scaldarsi un po’ i piedi.
I diavoli acconsentirono, non avevano tempo di occuparsi di lui, gli dissero di mettersi in un angolo e di non far perdere loro altro tempo, dovendo rimettere tutto in ordine e recuperare il tempo perso.
Sapete, i diavoli tengono sempre tutto in ordine e hanno tutto il loro tempo organizzato, non possono perdere un solo secondo.
Insomma, mentre i diavoli erano distratti nel loro lavoro, Sant’Antonio sapete cosa fa?
Prende il suo bastone di ferula e lo accosta alle braci ardenti.
Una scintilla entra dentro il bastone cavo e il legno spugnoso incomincia a bruciare dentro, senza che si veda niente all’esterno.
Quando Sant’Antonio capisce che il fuoco è entrato dentro il suo bastone, incomincia ad allontanarsi verso l’uscita, salutando e ringraziando i diavoli, che lo accompagnano subito al portone ben felici che se ne vada via con il suo maialino.
Sant’Antonio riprende il cammino per salire sulla terra, dove arriva in una notte fredda e stellata.
Gli uomini lo aspettavano e quando il santo li vide incominciò ad agitare nell’aria il bastone da cui sprizzavano le scintille. E disse:

                      Fogu fogu / peri su logu / peri su mundu / fogu iucundu

                                                                         ***
La festa di Sant'Antonio con i suoi fuochi segna l'inizio del Carnevale in tutta l'isola.






































                                                                  ***

* L'immagine della copertina si riferisce alla pubblicazione bilingue italiano/inglese  realizzata da Archivi del Sud nel 2015
​   (grafica Marica Busia)
 



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Un'altra storia per Natale. Dal folklore danese, attraverso la traduzione inglese di Stephen Badman: "Il folletto dispettoso" (Knee Breeches)

15/12/2020

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Il folletto dispettoso, si intitola questa storia, ma il titolo in inglese è "Knee Breeches" ovvero 'pantaloni al ginocchio', che come scoprirete, finiranno alla fine a brandelli. Ma vi voglio anche dire, prima di iniziare la lettura, che il folletto nella versione inglese è il "brownie" e in danese è "nisser": una creatura che abita nelle fattorie, dove rende i suoi servizi, a meno che non decida di diventare dispettoso. Per tenerlo buono, i contadini avevano l'abitudine di mettere fuori, ogni sera prima di andare a dormire, una ciotola di porridge. 

C'erano una volta un ragazzo e una ragazza che lavoravano in una fattoria. Il ragazzo era un bel tipo e la ragazza era molto carina, entrambi erano bravi nel loro lavoro e divennero buoni amici.
Nella fattoria viveva anche un brownie, un folletto, che era infatuato della ragazza. Ogni notte, portava acqua fresca e carburante in cucina prima di andare nella stalla, dove lavava e puliva sotto le mucche in modo che tutto fosse perfettamente pulito per quando la ragazza andava a mungerle, la mattina dopo.
Il folletto, però, non era altrettanto ben disposto nei confronti del ragazzo. Quando arrivava la sera e il ragazzo si infilava in cucina per scambiare due parole con la ragazza, il folletto correva sul pavimento di pietra verso la cucina, imitando il passo del proprietario, in modo che il ragazzo si affrettasse a uscire dalla porta sul retro e tornare ai suoi alloggi. Quando la ragazza apriva la porta della cucina per vedere chi c'era fuori, non c'era mai nessuno e lei capiva che era opera del folletto. Anche se faceva tutto il possibile per compiacere la ragazza, trovando sempre piccoli lavori da fare che le rendessero la vita più facile, lei era arrabbiata con lui, perché si comportava in quel modo con il suo ragazzo.
Quando giunse la vigilia della festa del paese, la ragazza preparò per il folletto una ciotola di porridge, come era consuetudine. Per quell’occasione si usava aggiungere una noce di burro che si scioglieva nel porridge, mentre si mescolava. La ragazza era ancora indispettita con il folletto, perciò incise la forma della croce nel porridge, pensando che si sarebbe arrabbiato con lei e avrebbe smesso di starle dietro. Ma il suo piano non funzionò. Il folletto non toccò il porridge, ma non diede fastidio alla ragazza; l'amava così tanto, poverina.
Con l'avvicinarsi del giorno di San Michele, furono fatti i preparativi per la grande festa del raccolto, con musica e balli, che si sarebbe svolta nella ricca tenuta di un vicino. Il contadino, sua moglie, il ragazzo e la ragazza erano stati tutti invitati e negli ultimi giorni prima della festa, ogni momento libero del loro tempo era dedicato alla scelta del loro guardaroba per l'evento. In quel tempo, gli uomini indossavano pantaloni gialli al ginocchio per occasioni importanti e il ragazzo ne possedeva un paio del genere, con bottoni gialli lucidi. Qualche giorno prima della festa, il ragazzo lavò i pantaloni nell'abbeveratoio del cortile, li stirò per eliminare tutte le pieghe e li appese nella stalla ad asciugare.
Ora succede che il folletto va nella stalla quello stesso giorno. Vede i pantaloni stesi nella stalla e si rende conto che appartenevano al ragazzo. La sua gelosia si impadronisce di lui e decide di fare uno scherzo al ragazzo, uno scherzo che gli avrebbe impedito di andare alla festa.
Prende i pantaloni e li appende nella parte più alta della stalla, tutto contento perché sapeva che se il ragazzo non avesse avuto i calzoni da indossare, non sarebbe potuto andare alla festa e non avrebbe potuto ballare con la ragazza.
Il giorno dopo, il ragazzo va nella stalla a ritirare i pantaloni e non riesce a trovarli. Cerca ovunque, ma niente. Ha continuato a cercare fino al giorno della festa, ma non si trovavano da nessuna parte. Il povero ragazzo alla fine si è trovato in una situazione difficile senza via d'uscita; non aveva altra scelta che dire che si sentiva male e che sarebbe rimasto a casa invece di andare alla festa.
Il folletto era felicissimo, sghignazzava tutto contento, ma la sua gioia si trasformò presto in sgomento, quando anche la ragazza si scusò e disse che non sarebbe andata alla festa.
Il ragazzo e la ragazza rimasero a casa da soli e si divertirono moltissimo. Sussurrarono e ridacchiarono, flirtarono un po’ e si scambiarono confidenze, che era l'esatto opposto di ciò che il folletto avrebbe voluto.
Alla fine, il ragazzo confessò alla ragazza che non era davvero malato, ma che i suoi pantaloni erano scomparsi. Lei scoppiò a ridere alla sua confessione, il che diede al folletto un grande piacere mentre ascoltava da dietro la porta.
Il giorno dopo, il ragazzo era nel fienile della stalla, a raccogliere il fieno per il bestiame. Aveva appena gettato via l'ultima balla di fieno, quando vide i suoi pantaloni che pendevano dal punto più alto del fienile.
"Quindi è lì che devi andare", pensò il ragazzo. "Beh, maestro Folletto, forse mi hai giocato un brutto scherzo, ma vediamo chi ride per ultimo."
Lasciò i pantaloni dov'erano, ma più tardi quella notte si intrufolò nella stalla e rimase in attesa del folletto. Non molto tempo dopo, lo vide entrare nella stalla e scavalcare le travi fino ai pantaloni. Li prese, li indossò e iniziò a ballare, saltellando allegramente da una trave all'altra. Rise e parlò da solo, ovviamente molto contento di aver giocato un simile scherzo al ragazzo.
Il giorno dopo, di buon'ora, il ragazzo entrò nella stalla, si arrampicò sulle travi e iniziò a rimuovere tutti i chiodi, lasciando le travi appoggiate dove si trovavano. C'era solo una trave, all'estremità del fienile che aveva lasciato così com’era, poiché i chiodi erano stati piantati troppo in profondità per essere rimossi.
La fattoria aveva un cane da guardia; una bestia selvaggia a cui solo il ragazzo osava avvicinarsi quando era incatenato. Ogni notte, il folletto entrava nell'aia e stuzzicava il cane senza pietà, ma stava sempre attento a rimanere oltre il limite della portata della forte catena, mentre il cane si scagliava contro di lui.
Quando si fece sera, il ragazzo uscì e tolse due anelli dalla catena del cane. Li unì di nuovo insieme con filo di cotone, sapendo benissimo che quando il folletto sarebbe tornato a molestare il cane, questo avrebbe sicuramente spezzato il filo, mentre gli si avvenatava contro con furia.
Più tardi quella notte, quando tutti erano a letto, il ragazzo faceva la guardia dalla finestra. Vide il folletto passeggiare nell'aia e, come al solito, dirigersi verso il cane. Si fermò appena oltre la lunghezza della catena, lo puntò e gli ringhiò, prima di girargli intorno.
"Grr, grr, guh - rowl, guh - rowl," lo provocò. "Non ti piacerebbe mordermi? Grrrr... "
Il cane balzò verso di lui, ruppe il filo di cotone che teneva insieme la catena e affondò i denti nel mantello del folletto, che quasi saltò fuori dalla sua pelle e corse nella stalla, lasciandosi dietro il cappotto, con il cane che gli ringhiava alle calcagna.
Una volta nella stalla, l'unico suo pensiero fu di raggiungere la sicurezza della trave più vicina, ma non appena ci appoggiò il suo peso, sia lui che la trave caddero con un tonfo sul pavimento ricoperto di paglia.
Il cane gli saltò addosso immediatamente e gli diede un bel morso sul sedere. Il folletto si rimise di nuovo sulle sue gambe e si diresse verso la trave successiva. Ma anche questa si schiantò a terra sotto il suo peso e il poverino si ritrovò di nuovo in balia del cane. Ogni trave che provava era lo stesso: cadeva a terra e il cane gli era addosso, strappandogli i vestiti. Alla fine, il folletto raggiunse la sicurezza dell’unica trave che era ancora inchiodata, e lì si sedette a curarsi le ferite, guardando il cane che era in agguato sotto di lui.
Quando spuntò l'alba, il ragazzo si avvicinò di soppiatto alla stalla e trovò il folletto ancora seduto sulla trave. Era immerso nei suoi pensieri, raccogliendo i resti dei bei pantaloni ed esclamando ripetutamente a se stesso: "Sono a brandelli. Sono a brandelli. "
 
La storia non è tutta qui. Comunque il ragazzo e il folletto divennero amici e da quel giorno nessuno andò più a disturbare il cane.


(Tradotto dalla versione inglese pubblicata in "Folk and Fairy Tale from Denmark" - http://www.talltales.me.uk -  
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Stephen Badman e la sua opera sul folklore danese

Stephen Badman è storyteller e performer gallese da 40 anni, ha fondato il Gwent Theatre in Education per l'applicazione del teatro e dello storytelling nell'educazione scolastica. E' traduttore dal danese e per questo collabora con il Dansk Folkemindesamling (Danish folklore archives) e con il Centro di ricerca dialettologica dello Jutland presso la Århus University. 
Ha pubblicato dieci volumi di racconti popolari tradotti in inglese dal danese e i suoi dialetti:
"Tales from Denmark", "More Tales from Denmark", "The Ghost on Horseback", "Three Pieces of good Advice", "The Soldier and Mr Scratch", "Odds and Sods" and "The Cat's Castle".
Gli ultimi libri, `Folk and Fairy Tales from Denmark` vols. 1 & 2,  sono una raccolta delle storie di E T Kristensen e`Folk and Fairy Tales from Denmark` sono le storie raccolte da Jens Kamp.

Molte storie non erano mai state tradotte in un'altra lingua europea, e quindi Badman con il suo infaticabile impegno, ha permesso che fossero conosciute ad un pubblico molto più ampio. Sono tanto più preziose, perché conservano i tratti originali della narrazione popolare autentica, come spiega lo stesso traduttore in queste righe:
"Queste storie fanno parte del canone meravigliosamente ricco dei racconti popolari europei, ma sono comunque uniche in virtù della loro geografia e della società che riflettono. La Danimarca agricola del XVIII e XIX secolo era molto diversa dalla Danimarca di oggi; la maggior parte della brughiera desolata doveva ancora essere ripulita e l'agricoltura, per coloro che si trovavano ai gradini più bassi della scala sociale, era a un livello di sussistenza minimo. Si lavorava nei campi dall'alba al tramonto, prima di tornare a casa e continuare a lavorare (cardatura, filatura, tessitura, maglieria e mille faccende domestiche) alla luce di una lampada a olio o di un fuoco di torba.
Quando il tempo del raccolto arrivava nelle grandi tenute c'era una migrazione di massa di uomini e donne in cerca di lavoro. Sarebbero stati ospitati nei granai e di notte, al termine della giornata di lavoro, avrebbero raccontato le loro storie dove l'eroe era il povero pastore che si prendeva cura del suo gregge nella brughiera e lo scudiero locale veniva elevato a "Re". nel castello`.
Le fiabe che ci sono familiari ora, tuttavia, hanno perso l'immediatezza e la "verità" del racconto orale e sono state adattate per fornire poco più che intrattenimento per i bambini. Nel XIX e XX secolo, le fiabe di magia divennero inestricabilmente legate alla letteratura per bambini. Le storie sono state modificate e disinfettate; i temi per adulti sono stati omessi per rendere le storie più accettabili. Fu aggiunto un tono moralizzante, in particolare durante l'età vittoriana; una caratteristica spesso vista in alcuni dei racconti realizzati da Grundtvig e in alcune delle storie di Jens Kamp.


Nel ventesimo secolo, le fiabe sono diventate sinonimo di Walt Disney che ha rivolto i suoi adattamenti cinematografici a bambini e famiglie. La grafica distorceva la vera natura dei motivi nelle storie e al pubblico si fornivano immagini già pronte e spesso carine, che riducevano la necessità di utilizzare l'interpretazione personale e l'immaginazione. I suoi film sono ancora molto popolari e offrono un'esperienza confortevole per il pubblico, completa di lieto fine obbligatorio.
Si può affermare che questa evoluzione negli ultimi due secoli abbia decisamente avviato la fiaba di magia sulla via dell'estinzione, riducendola a una rappresentazione unidimensionale del trionfo del bene sul male, e privandola della sua vera natura per adattarla al consumo familiare.

Le storie in "Tales from Denmark" rivisitano la tradizione orale e sono pensate per essere lette ad alta voce; sono state registrate nel dialetto e nei modelli di discorso dei narratori, senza alcun tentativo di dare loro una patina letteraria. Gli stessi narratori provenivano da contesti rurali e andavano a raccontare tra agricoltori, casalinghe, allevatori e insegnanti. Hanno il pregio di essere raccolti alla fonte e riflettono le voci dei narratori originali.
Le storie non sono adattamenti unidimensionali ritenuti adatti per un pomeriggio rilassante di intrattenimento familiare, ma hanno la capacità di fornire le basi per discussioni significative. I temi universali dell'eredità, delle relazioni e delle dinamiche familiari, dello status, del bene e del male sono ancora rilevanti nella società odierna, come quando furono registrati per la prima volta. I temi e le questioni sono senza tempo; purtroppo, è la nostra mancanza di tempo che ha oscurato la loro importanza".
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Ringrazio Stephen Badman per avermi permesso di pubblicare qui la mia traduzione di "Knee Breeches".L'intento tra storyteller è sempre quello di far circolare le storie e di diffonderle il più possibile, affinché vengano ancora raccontate e tenute in vita. Ma bisogna sempre chiedere l'autorizzazione a chi ce le consegna! 
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Una storia di Natale. Dal repertorio del grande storyteller scozzese Duncan Williamson

10/12/2020

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Con il permesso di Linda Williamson, pubblico la traduzione italiana di questa preziosa storia di Natale, raccontata dal grande narratore scozzese Duncan Williamson (1928-2007). La sua opera continua ad essere trasmessa da Linda, nella sua pagina facebook potrete trovare tante bellissime storie.

L’Albero di Natale e il Pettirosso
Come fu che l’abete diventò sempreverde

​Era il tempo di Natale quando un piccolo pettirosso se ne andava saltellando nella foresta.
E alcuni bambini che giocavano fuori casa lo videro. Ora, i pettirossi sono molto socievoli, dovunque voi siate nella foresta, loro vi vengono incontro. E uno dei ragazzi, che era un po’ selvaggio e maligno, gridò: “C’è un pettirosso!” Prese una pietra, la lanciò, colpì il pettirosso e gli spezzò un’ala. L’uccello svolazzò via come poté tra l’erba. E i ragazzi se ne andarono senza preoccuparsi più del piccolo animale.
Così il pettirosso sbucò fuori dall’erba. Sapeva che non avrebbe potuto volare per molti mesi, perché la sua ala era spezzata. E poiché sopraggiungeva il tempo del freddo inverno, pensò: “Devo trovarmi un rifugio, un posto dove poter stare e riposare e trovare un pò di cibo, dove nessuno possa farmi del male”.
Il pettirosso viveva in una foresta dove c’erano molti, molti alberi di ogni tipo; frassini e salici, faggi e querce, abeti e insomma ogni sorta di alberi. Così il primo pensiero del pettirosso fu: “Andrò da uno di questi alberi a chiedere che mi diano un riparo. Non posso mica andare dagli uomini, loro tutt’al più potrebbero spezzarmi l’altra ala!”. E saltellò zoppicante attraverso la foresta, trascinandosi dietro la povera ala rotta.
Il primo albero che incontrò era un grande faggio:
“Per favore, Signor Faggio, per favore, aiutami”. E il faggio gli parlò: “Cosa vuoi uccellino?” E lui: “Dei ragazzacci mi hanno spezzato un’ala e ora ho bisogno di un riparo. Per favore, mi puoi aiutare? Potresti nascondermi tra i tuoi rami, almeno finché la mia ala non guarirà”.
“Gira alla larga – rispose il faggio – non ho tempo da perdere con i piccoli uccelli come te. Venite qui, beccate le mie bacche, mangiate i miei semi. Sta’ alla larga, ti dico, non ho tempo per voi piccoli uccelli!”.
Così il povero pettirosso continuò a zoppicare attraverso la foresta e per giunta incominciò a nevicare. Continuò ad andare avanti, trascinando la povera ala rotta, finché arrivò davanti ad una grande quercia. La quercia aveva così tanti rami che si intrecciavano e formavano pieghe e cavità, dove il pettirosso avrebbe facilmente trovato riparo.
“Per favore, Signora Quercia, mi potresti aiutare?”
“Che cos’è che vuoi?” chiese l’albero.
E il piccolo rispose: “Quei ragazzacci mi hanno spezzato l’ala e ho bisogno di un rifugio. Mi potresti ospitare in uno dei tuoi rami, almeno finché la mia ala sarà guarita?”
“Sta’ alla larga – disse la quercia – Non ho tempo per voi, piccole pesti. Prendete le mie ghiande e mangiate tutti i miei semi, sedete tra le mie foglie e fischiate tutto il santo giorno. Siete proprio una scocciatura. Sta’ alla larga, ti dico”.
Il povero piccolo pettirosso se ne andò saltellando e zoppicando come poté nella foresta coperta di neve, finché giunse davanti ad un larice: “Per favore, Signor Larice, aiutami, ti prego!”
“Cosa vuoi?” “Ho bisogno di un riparo per l’inverno” disse il pettirosso, e ripeté la sua storia: “Dei ragazzi mi hanno spezzato l’ala e non posso volare, mi puoi ospitare tra i tuoi rami per un po’ finchè la mia ala sarà guarita?”
“Sta’ alla larga! Non vi sopporto, voi piccoli uccelli. Vi accomodate tra le mie fronde e iniziate a cinguettare, poi prendete, fate cadere i miei aghi, saltellate tra i miei rami, disturbando le mie pigne e mangiando i miei semi. Sta’ alla larga, ti dico”.
Ed eccolo ancora, povero e stanco, il nostro pettirosso che se ne va per la foresta con la piccola ala rotta.
Zoppica e zoppica, arriva davanti ad un maestoso frassino: “Per favore, Signor Frassino, aiutami ti prego. Sono solo un povero pettirosso con un’ala rotta che chiede un rifugio per l’inverno”
“Sta’ alla larga – rispose il frassino – non ho tempo per voi, piccole creature cinguettanti. Vi conosco bene: mangiate i miei semi, sedete e cinguettate, cantate tutta l’estate, e quando l’inverno arriva non sapete fare nulla, se non andare a chiedere riparo a noi alberi. Sta’ alla larga da me!”.
Il povero piccolo pettirosso saltellò, zoppicò, trascinò ancora la sua ala, nella foresta, mentre cadeva fitta la neve. Nella sua mente aveva capito che nessun albero gli avrebbe mai dato riparo.
Alla fine arrivò davanti ad un altro albero, era un piccolo abete. E l’abete ha dei rami molto fitti, che tengono caldo così il pettirosso saltò sul piccolo albero e disse: “Per favore, piccolo Abete, mi vuoi aiutare?”
“Qual è il problema, uccellino?” chiese l’alberello.
E il pettirosso rispose: “Quei ragazzacci mi hanno tirato le pietre e ora ho un’ala spezzata. Ho chiesto a tutti gli alberi che sono nella foresta di darmi un riparo, ma nessuno ha voluto darmi alcun aiuto”.
“È vero quello che dici?” chiese l’abete. “Sì, è vero – rispose il pettirosso – mi hanno ordinato di stare alla larga”.
“Vieni, vieni qui – disse l’abete – questo non è il modo di trattare un piccolo uccello. Gli uccellini andrebbero trattati con maggiore rispetto. Ho molti rami dove potrai stare tranquillo e al caldo, e ci sono molti semi che non raggiungeranno il terreno e non potranno dar frutto.
Salta qui, dentro i miei rami, piccolo pettirosso, stringiti al mio cuore e troverai calore. Ti cullerò nel vento e ti canterò delle belle canzoni”.
L’abete abbassò uno dei suoi rami e il pettirosso vi saltò sopra, infilandosi subito al centro, nel cuore dell’albero, protetto dai fitti rami. Si stava bene, c’era un dolce tepore, e c’erano tanti semi tutto intorno che erano caduti dalla cima dell’albero.
Ma il pettirosso non sapeva che una fata dei boschi si era fermata a riposare sullo stesso albero e aveva sentito la conversazione tra il pettirosso e l’abete. Così la fata pensò: “Quei perfidi alberi”. Aveva sentito il pettirosso che raccontava la storia di come era stato cacciato via. “Quegli alberi si meritano una bella lezione. Ma non tu, mio piccolo albero”.
Così la fata vola verso il cuore della foresta ed incontra il Vento del Nord. Era uno dei suoi migliori amici, come lo erano anche il Vento dell’Est e il Vento dell’Ovest e il Vento del Sud. La fata racconta al Vento del Nord la stessa storia che vi ho raccontato io. E il Vento del Nord scuote la testa, dicendo: “Terribile, terribile, terribile! Non si può credere che degli alberi abbiano fatto questo ad un piccolo pettirosso. Si meritano una bella lezione. D’ora in poi, d’inverno, quando il mio soffio arriva nella foresta, quegli alberi patiranno il freddo. Farò volare via ogni foglia e ogni fragile ramoscello la prossima volta che passerò nella foresta. E avranno tutti bisogno di un riparo. Ma lascerò intatto il giovane abete. I suoi rami saranno sempre verdi durante tutto l’anno, sarà maestoso e sarà l’orgoglio della foresta. Tutti quanti lo ammireranno”.

Così arrivò l’inverno e il Vento del Nord incominciò a soffiare tra gli alberi della foresta, e, come aveva detto, fece volare via ogni singola foglia dai rami del Frassino, della Quercia, del Faggio e ogni ago del Larice, lasciandoli completamente spogli. Ma il piccolo albero, l’Abete, non venne neanche sfiorato dal gelido soffio del Vento del Nord, che vi passò accanto dolcemente, trattenendo il respiro. E per tutto l’anno l’abete conservò il suo bel verde. Il pettirosso vi dimorò per tutto l’inverno. La sua ala guarì. Viveva grazie ai semi che cadevano dall’albero. Poi in primavera volò via per cercare una compagna, fare un nido e avere dei piccoli. Ma sempre, durante l’inverno, ritornava al suo piccolo albero e si appollaiava su in cima. Prima di entrare tra i suoi rami per ripararsi durante l’inverno, stava lì, in cima all’albero, a cantare e cinguettare finché ne aveva voglia. Perché il piccolo abete amava ascoltare il pettirosso che cantava le sue belle canzoni. Ecco perché anche nei nostri giorni, quando le persone festeggiano il Natale nelle loro case, amano sempre avere un piccolo pettirosso sul loro albero.
E questa era la storia dell’Albero di Natale e del Pettirosso.

Possa tu sempre conservare un cuore sempreverde!
May you always keep an evergreen heart!’
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copertina del libriccino bilingue pubblicato da Archivi del Sud Edizioni (2016, grafica Marica Busia)
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Il primo racconto della discesa agli Inferi

31/10/2020

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Picturedomus de janas, Neolitico, località Monte Minerva, Sardegna
Con il periodo di fine ottobre e inizio novembre salutiamo l'ingresso nella metà oscura dell'anno. Halloween, Samhain, Dias de Los Muertos ...Tradizioni precristiane e cristiane concordano, le feste e i rituali si intrecciano e accompagnano il diminuire della luce solare e il necessario riposo della terra dopo la stagione dei raccolti.
Sono anche i giorni in cui ci dedichiamo alla memoria dei defunti, come se in questo particolare momento dell'anno sia più sottile il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. 
Tanti sono i generi di racconti che possiamo citare per questo periodo (racconti di spiriti, fantasmi, revenants, il ciclo gaelico di Jack e il diavolo),  ma in questo post vorrei concentrarmi sui racconti della discesa agli Inferi, topos letterario che ha attraversato le epoche fino a noi. 
Sicuramente la mente va subito ai viaggi di Ulisse, Enea, Dante ... ma i racconti più antichi sono tutti al femminile!
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La discesa nella parte oscura (Ade, Inferi, Averno, Orco, Tartaro), almeno per la nostra cultura mediterranea-mediorientale, è rappresentata in forma simbolica nel mito di Demetra e Persefone. 
Demetra, dea delle messi e dell'agricoltura, ma incarnazione di una più antica divinità della terra, cerca per nove giorni e nove notti la figlia Persefone, finché scopre che è stata rapita da Ade, il dio degli Inferi. Prima che la madre riesca a liberarla, Persefone ha mangiato sei chicchi di melograno, e questo gesto le impedisce di uscire dagli Inferi. Demetra lascia l'Olimpo e fa scendere sulla terra una terribile siccità, inaridendo tutti i raccolti. Alla fine, ci si accorderà perché Persefone possa tornare dalla madre sulla terra per una parte dell'anno, per poi tornare dal suo sposo Ade nell'altra parte, simboleggiando così l'avvicendarsi delle stagioni. 
​
Ma c'è un altro racconto più antico di questo ed è la discesa agli Inferi di Inanna, divinità sumera dei cieli e della fecondità della terra, della bellezza e dell'eros. Sono tutte definizioni che adattiamo al nostro modo di percepire le cose; le infinite traduzioni, i passaggi da una civiltà all'altra e la decontestualizzazione ci impediscono probabilmente di comprendere appieno le qualità e la potenza della divinità. 
Ma ci avviciniamo in qualche misura ad una percezione più profonda quando ascoltiamo il mito in cui la dea dei Cieli si misura con la sorella Ereshkigal, divinità dell'Oltretomba. Per entrarvi deve superare le sette porte e spogliarsi dei suoi sette "Me", princìpi che regolano l'universo fuori da quelle mura. Inanna entrerà nuda nel regno dell'Oltretomba e affronterà il tradimento e poi il giudizio che la condanna a morte. Ma alla fine le sarà accordato di risorgere attraverso l'aspersione di "cibo e acqua della vita". Al suo posto, nella terra dei morti finirà lo sposo infedele Dumuzi, per la metà dell'anno, anche qui a simboleggiare il ciclo delle stagioni. 
E' un racconto complesso e articolato, molto raffinato nella sua ricchezza di simboli ed allegorie, ritrovato su tavolette d'argilla incise con caratteri cuneiformi di 5000 anni fa (3.400-3000 a.C.), che si intreccia con la più famosa saga di Gilgamesh.
La dea dal "cuore immenso" Inanna non ci ha lasciato solo il più antico racconto della discesa agli Inferi, ma anche i più antichi poemi d'amore erotico, dedicato allo sposo Dumuzi. 

Bibliografia:
La Saga di Gilgameš, Traduz. di G.Pettinato,  Milano, Mondadori, 2008
Inanna, Signora dal Cuore Immenso, Betty De Shong Meador, Venexia Edizioni 2009



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Sigillo di Inanna, età accadica (fonte Wikipedia)
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Il segreto del lievito

30/10/2020

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Nel visitare il Museo del Louvre, tra la grande arte statuaria della Grecia Antica, suscitano tenerezza le piccole teche che custodiscono le statuette di terracotta Tanagra del IV sec. a.C. con scene di vita quotidiana e, tra queste, mi sono soffermata in particolare ad osservare questi personaggi intenti a fare il pane. 
Così mi è tornata alla mente la leggenda del lievito, che qui vi voglio raccontare. 
In un paese in Sardegna, ad Ozieri per la precisione, c'era una grotta dove viveva una donna vecchia vecchia vecchia, che tutti chiamavano Sa Sabia Sibilla. Ora, era talmente vecchia che Dio, quando aveva creato il mondo, le aveva dato il dono di conoscere tutte le cose. Era insomma una grande sapiente.
Perciò le donne del paese avevano pensato di mandare a scuola dalla Sabia Sibilla le loro bambine. In quel tempo, a scuola le bambine dovevano imparare a saper tessere e filare, rammendare e ricamare, fare il bucato e cucinare e soprattutto ... fare il pane.
​Come succede ancora oggi, le scolarette ogni tanto portavano a casa i lavoretti fatti a scuola. E quando ritornavano con il pane, tutte le donne rimanevano meravigliate di come fosse buono e fragrante, gonfio e morbido, mentre quello che facevano loro era piatto, arido, e non sapeva di niente.
Ora, dovete sapere che tra queste piccole allieve c'era una bambina che si chiamava Mariedda, ed era la figlia di Sant'Anna. Così, la madre un giorno le disse: "Mariedda, guarda un po' com'è che fa questo pane, Sa Sabia Sibilla, deve avere un segreto". 
E infatti Mariedda aveva capito che Sa Sabia Sibilla insegnava sì, ma non proprio tutto tutto, perché era gelosa dei suoi segreti. La bambina aveva capito che, per imparare dalla sua maestra, non doveva fare tante domande, ma piuttosto doveva stare in silenzio e osservare, osservare tutto attentamente. 
Così arriva il giorno che a scuola si deve fare il pane: la maestra prende il tavolo di legno utilizzato esclusivamente per fare il pane (sa mesa), poi prende un grande recipiente di terracotta (su conculu, su tianu), poi prende il setaccio (su sedatu) e vi versa la farina (sa podda) in modo che formi come una collina e poi con la mano forma come un piccolo cratere in cima alla farina. A Mariedda non sfugge nulla e vede che, a questo punto, Sa Sabia Sibilla va verso una credenza, prende una tazzina e ne tira fuori una piccola palla di pasta, la fa sciogliere delicatamente in una ciotola di acqua tiepida e poi versa il tutto in cima alla collinetta di farina.
"Ecco cos'è il segreto, deve essere proprio nella pallina di pasta, il segreto", pensò Mariedda.
Poi la maestra prepara l'impasto e dice: "Ecco questa è la pasta madre (sa madrighe), lasciamola riposare". Dopo, anche le bambine iniziano tutte ad impastare. Era la parte che piaceva di più alle piccole alunne, mettere le mani nella pasta e lavorarla era divertente, ma diventava man mano sempre più pesante, e la maestra le incitava o le rimproverava perché dovevano essere energiche e non perdere il ritmo ... suìghere, cummassare, cariare ... 
Poi davano la forma al pane e lo preparavano per essere lasciato a riposare nelle ceste in candidi teli di lino. Le bambine andavano ogni tanto a spiare la pasta che lentamente si gonfiava e aumentava di volume.
Intanto Mariedda non si era mica distratta. Vede che dei pezzetti della piccola palla di pasta erano rimasti sulla mesa. Segretamente li prende e li nasconde sotto l'ascella. E' in questo modo che riesce a portarli dalla mamma Sant'Anna. Alla quale poi spiega per filo e per segno cosa deve fare e senza dimenticare che alla fine della lavorazione un'altra pallina di pasta deve essere conservata nella credenza. 
Fu così che la nostra Mariedda carpì il segreto del lievito (su fremmentalzu, su frammentu) alla Sabia Sibilla e poi Sant'Anna lo donò a tutte le donne, ma ad una condizione: che anche loro lo donassero ad altre donne. E così in Sardegna la tradizione vuole che il lievito, come il fuoco o l'acqua, non si possa mai rifiutare a qualcuno che lo chiede.
Si racconta che persino le janas, le fate della Sardegna, non conoscono il segreto del lievito e vanno a chiederlo in prestito "alle donne di malomondo". 

Ho raccontato questa storia moltissime volte per "Fiabe a Merenda", davanti a tanti bambini e bambine e i loro genitori e nonni.
Attraverso la narrazione orale, le storie "lievitano", si gonfiano, si arricchiscono, si ammorbidiscono per adattarsi all'uditorio. Ho pensato tante volte che l'ascolto partecipe sia proprio come il lievito. 

Potreste provare anche voi a raccontare questa storia, adattandola al vostro contesto. E' molto bello quando gli ascoltatori partecipano con i loro ricordi e riemergono alla memoria gesti e parole di tanto tempo fa. Nella tradizione contadina la lavorazione del pane era circondata da un'atmosfera sacra, tutto si faceva in silenzio, alle prime ore del mattino, tutto era candido e pulito, c'erano oggetti e ambienti che venivano usati solo per il pane. Dall'ascolto di questa storia possono venir fuori tante belle conversazioni, ricordi, confronti tra una generazione e l'altra. Partendo magari da quelle piccole statuine greche del IV secolo ...

E che questo tempo di attesa (inverno 2020), sia per noi come il lievito per il pane. 

(Questa è una mia personale interpretazione di una storia dal titolo "Su contadu de sa Sabia Sibilla" raccontata da Bonaria Manca e registrata da Maria Manunta per la sua tesi di laurea nel 1974 presso Università di Cagliari, pubblicata dall'associazione Archivi del Sud nel CD "Contami unu Contu" vol. I Logudoro, 1996).
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pane cerimoniale Sardegna
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Discesa agli Inferi e ritorno ... forse

8/10/2020

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Picturetomba dei giganti di Borore, età del Bronzo, Sardegna (foto Enedina Sanna)



Divinità ed eroi affrontano la discesa agli Inferi, ma ritrovano sempre la strada per ritornare.
Nelle antiche storie tramandate oralmente dalla notte dei tempi si racconta anche dei comuni mortali che finiscono all'Inferno e che, per niente contenti, vorrebbero ritornare indietro, ritenendo la punizione ingiusta. 
Ho trovato traccia delle varianti di questo mito in Sardegna, nei racconti del Buddha e perfino nel romanzo "I fratelli Karamazov di Dostoevskij. 
Perciò se avete tempo, seguitemi in questa appassionante ricerca. 
Partirò con il raccontarvi la leggenda buddhista: la riporto a memoria, così come la ricordo, dopo averla ascoltata tanti anni fa nella magnifica lettura di Dominique Blanc:
Buddha e la corda d'argento
"Un giorno, in un chiaro mattino, il Buddha passeggiava sulle rive del lago Fiore di Loto, assorto nella sua meditazione. Quando, sporgendosi sull'acqua e guardando nelle profondità del Naraka, la sua attenzione fu attirata da un uomo che vi si dibatteva furiosamente e sembrava chiedere aiuto. Subito lo riconobbe: era Kantuka, lo aveva incontrato in vita. Lo conosceva bene, era un ladro e un miserabile assassino.
Ma il Buddha è l'infinita compassione. Ricordò che una volta Kantuka aveva fatto un gesto di bontà, allontanando dal suo sandalo un ragno, anziché schiacciarlo. 
Così, in ricordo di quel gesto, il Buddha decise di dare all'uomo una possibilità. prese un filo di ragnatela e lo calò nell'acqua. Nella discesa il filo di ragno si trasformò in corda d'argento e arrivò davanti a Kantuka, il quale subito capì che gli era stata concessa la possibilità di salvarsi.
Immediatamente afferrò la corda e, con tutta la forza di cui era capace, vi si avvinghiò mani e piedi per intraprendere la salita. Ma come lui, anche tutte le altre creature condannate al Naraka naturalmente ebbero la stessa idea e tutte vollero seguirlo sulla corda d'argento. Vedendo ciò e temendo che l'esile corda si spezzasse, Kantuka fece per estrarre un pugnale che conservava ancora con sé per recidere la corda sotto di lui. 
Ma ebbe solo il tempo di pensare quel gesto che la corda si spezzò sopra di lui e ricadde per sempre nel Narak
a".

Nella versione sarda, la corda d'argento è un più umile stelo di cipolla e la protagonista è 
La mamma di San Pietro 
"Quando Gesù era nel mondo e andava in giro con i suoi apostoli, la mamma di San Pietro non lo poteva sopportare. Era una donna davvero cattiva, si dice che fosse una fattucchiera (una majarza in sardo), e cercò più volte di colpire Gesù con le sue magie, ma naturalmente senza successo.
Insomma, alla fine sappiamo come andarono le cose, San Pietro andò in Paradiso con Gesù e sua madre invece nell'Inferno! Questo San Pietro non lo poteva accettare e pregava sempre Gesù di liberarla. "Almeno per qualche focaccia di cipolla (cotzula de chibudda in sardo) che ci ha cucinato". Gesù allora disse: Va bene, ecco uno stelo di cipolla (unu serione de chibudda), fallo scendere nell'Inferno e vedi se riesce a venire fuori con questo. 
San Pietro subito, tutto contento, calò lo stelo di cipolla e disse alla madre di aggrapparvisi in modo da tirarla su. 
Lei non se lo fece ripetere due volte, e subito con grandi sbuffi e oja qui e oja là iniziò a salire.
Ma a quel punto succede che anche tutte le altre anime vogliono aggrapparsi allo stelo e si affannano dietro alla mamma di San Pietro. Vedendo ciò e temendo che l'esile stelo non potesse reggere il peso, la donna inizia a scalciare e inveire contro le altre anime. Ma facendo ciò lo stelo si spezza e la donna ricade per sempre nell'Inferno.
San Pietro, sconsolato, riferisce l'accaduto a Gesù, il quale per consolarlo gli dice che almeno sarà menzionata nella messa. Donna Bisodia o Donna Peronia sono i nomi con cui è conosciuta la madre di San Pietro nella tradizione popolare, derivati dal ... latino latinorum "dona nobis hodie" e "per omnia (secula seculorum)". 

E' una storia popolare molto diffusa in Sardegna (che qui ho riferito in una versione molto breve), citata anche da Antonio Gramsci in una delle sue Lettere dal Carcere alla sorella Teresina: "...le beghine ripetono il latino delle preghiere contenute nella Filotea: ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater Noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c'era ancora un po' di religione in questo mondo. - Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia» immaginaria che era portata a modello ..." lettera del 16 novembre 1931.

La cipollina 
è una racconto simile alla versione sarda (ma senza riferimenti ai personaggi del Vangelo), che ritroviamo in un dialogo tra Grušenka e Aleksej ne "I fratelli Karamazov. Non lo riporto qui per non ripetere la storia, ma anche per invitarvi alla ricerca nel grande capolavoro di Dostoevskij! 

La comparazione tra varianti è un lavoro che ogni storyteller professionista compie per una conoscenza approfondita della storia, soprattutto quando la tradizione ci perviene in modo frammentario. Allora arrivano in aiuto storie da altre culture e da altri storytellers a completare le parti mancanti. Si procede ad un vero e proprio lavoro di raffronto e ricostruzione, così come fa un archeologo con i frammenti dei vasi. 


Bibliografia e consigli per l'ascolto:
Dominique Blanc legge "Les plus beaux Contes Zen" a cura di Henry Brunel, ed. Fremeaux
​Fedor Dostoevskij "I fratelli Karamazov", varie edizioni, ora anche audiolibro (consiglio la lettura di Claudio Carini)

Per chi capisce il sardo: trasmissione radiofonica "Custu est su contu" puntata n. 16 - Rai Radio Sardegna - condotta da me in compagnia del grande maestro Franco Enna, autore di "Contos de foghile". 
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Grazie per avermi letto fin qui, vi invito ad inviarmi i vostri commenti, riflessioni, approfondimenti qui oppure alla mail enedin@gmail.com 

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    Coltivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi.
    Il blog nasce dal desiderio di trasmettere ciò che ho imparato (e che continuo ad imparare ogni giorno) su quest'arte.

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