![]() Tra i maestri che mi hanno ispirato, pur non avendolo mai incontrato, c'è il narratore francese Michel Hindenoch. Artista poliedrico, musicista e troubadour, capace di trasmettere una potente carica di umanità, è l'autore di un'opera fondamentale, purtroppo poco nota in Italia, non essendo finora stata tradotta. Conter, un art? (edito da La Lopioute nel 1997, ora disponibile presso www.lejardindesmots.fr)
Michel Hindenoch "Le voyage de Solki" extrait de Fruits Rouges
Lo ringrazio di cuore per aver autorizzato la pubblicazione in questo blog di una mia traduzione, un brano del libro in cui l'Autore elenca le qualità essenziali per chi vuol raccontare:
Un narratore può utilizzare ogni sorta di talento, ma ci sono delle qualità di cui difficilmente si può fare a meno. Queste qualità sono cinque: una voce, una lingua, un corpo, un cuore, un giardino Una voce: forte e generosa allo stesso tempo, per pretendere di farsi pubblica, di rivolgersi a molti. Una voce, cioè, che sia consapevole del territorio in cui si muove. Una voce flessibile, capace di tradire la più piccola emozione, il più trascurabile stato d'animo, una voce espressiva, sincera, giusta, aperta, vicina alla confessione. Una lingua: svelta, pronta a caratterizzare in qualche parola una situazione, un profilo, un paesaggio. Fatta di parole semplici e soprattutto concrete (è solo accontentandosi di dire l'apparenza delle cose che le si fa apparire). Una lingua comune, che sia compresa dal maggior numero di persone. Una lingua che cammina, salta, corre, si stupisce davanti alle cose. Una lingua orale: che ha l'umiltà di non arrestare il corso degli eventi per descriverli, ma che si accontenta del tempo di cui dispone. Una lingua viva, in continua nascita. Una lingua, infine, forte, libera, feconda, pronta a mettere al mondo nuove creature. Un corpo. Perché la presenza è inevitabile. Ma un corpo che avrà la funzione non di agire, come nell'attore, quanto di essere "in presenza" delle cose. E naturalmente delle cose virtuali, immaginate, ricordate, piuttosto che delle cose reali che ci portano solo a distrarci da questo sogno corporale. Un corpo che "vede", "sente", "gusta", "respira", "tocca" le cose. E la parte del nostro corpo che si mette maggiormente in gioco in questa attività è la pelle, tutta la superficie della nostra pelle. Con le sue zone specializzate che sono: l'orecchio, l'occhio, il palmo delle mani, l'estremità delle dita, la pianta dei piedi, il naso, il palato, fino all'interno del corpo, dei polmoni, della pancia. E' proprio soltanto con la pelle che siamo in presenza delle cose. E' questa parte del corpo che dovremmo coltivare. Un cuore. Grande. Grande il più possibile. Luogo dei sentimenti, ma prima di tutto sede di due virtù preziose necessarie ad ogni narratore: il coraggio, per osare esporsi in questo luogo. Il coraggio di mettersi così allo scoperto davanti agli altri, talmente più numerosi dell'io. Il coraggio di dire ciò che si vorrebbe mantenere segreto. Il coraggio anche di tacere, di lasciare talvolta parlare il silenzio al nostro posto. Il coraggio di partire a rischio di perdersi in una storia che non si capisce mai del tutto. L'altra virtù necessaria è la generosità. Ricevere l'uditorio piuttosto che attendere di essere ricevuto da esso. Invitare di buon cuore chi non si conosce, amarlo prima ancora che lui ci ami. Affidarsi agli altri. Lasciarli liberi di aderire o di rifiutarsi. Affidarsi alla storia, quella tana del lupo da cui si spera di uscire sani e salvi, e liberi soprattutto! La fiducia che permette di andare fino alla fine delle cose, alla fine del mondo qualsiasi cosa accada. La fiducia che permette di credere. Credere alle storie che si raccontano, credere prima di tutto noi che si tratta di storie vere, prima di sperare di farle credere ad altri. Nel caso peggiore, credere senza gli altri, essere l'ultimo dei Mohicani. Ma il cuore è anche la sede della nostra identità profonda. E' il centro di noi stessi. Il luogo da cui provengono tutti i nostri desideri, opinioni, amori, talenti. Perché non si tratta di delegare il nostro compito ad altri, fosse anche un personaggio-narratore che potrebbe prendere il rischio al nostro posto, o che potrebbe cavarsela meglio di noi. E' il luogo della propria realizzazione. Dove si sposano le ombre e le luci dell'io. Il luogo unico dell'unico narratore al mondo che tutti attendono. Il solo capace di estrarre dal suo dire una parola, cioè un albero di luce che gli appartenga dalla foglia più alta fino alle radici più profonde. Il solo capace di mettere al mondo degli alberi interi. Rimane, infine, da dare a questo narratore un posto nel mondo, un reame, un territorio: un giardino. In questo giardino crescono sogni, desideri, piaceri, sofferenze, idee, ricordi. E' in questo giardino che si trova il nostro repertorio. Non vi crescerà qualsiasi storia: solo il seme che si sente a suo agio germoglierà. Il nostro repertorio è proprio una creazione personale. Questo giardino non può ricevere i sogni e i desideri che non ci appartengono, non è un giardino pubblico. E' fatto dei nostri segreti. Le erbacce che vi entrano sono le convenzioni, le convenienze, i clichés, i desideri degli altri, e i cadaveri delle nostre idee defunte. Bisogna estirparle. Con pazienza e senza stancarsi. Qualche volta un'erbaccia resiste e si ostina a rimanere nel nostro giardino. E noi finiamo per adottarla. Allora essa diventerà una nuova pianta, e va bene così, ma non ricevera il nostro riconoscimento se non al prezzo di una lotta lunga e valorosa con il giardiniere. Ecco perché i più grandi narratori non hanno mai potuto portare con sé più di una cinquantina di storie per volta. Al massimo un giorno e una notte di parola viva. ... Ecco dunque i cinque luoghi da cui il narratore attinge la sua presenza. E questa presenza dovrà tendere verso la qualità suprema della pelle: la trasparenza. Se non si vuole fare da schermo e nascondere la storia, bisogna che la più piccola goffaggine come la più piccola abilità non facciano di lui un narratore opaco.La trasparenza è quella leggerezza che ci può dare soltanto il dono totale di sé. Più si diventa abili e più bisogna bruciare. Bruciare tutto, senza reticenze. Non sperare altro che scomparire. Non sperare di conservare o conquistare qualcosa. Dimenticarsi. Essere una cavalcatura per la propria storia e non cavalcarla. I racconti sono delle creature avide di potersi incarnare. Mi sono trovato a dire che sono fatti per essere mangiati. E' vero! Ma da quelli che ascoltano. E prima di questo bisogna che abbiano, i racconti, divorato un narratore.
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AuthorColtivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi. Archives
March 2022
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