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Un'intervista su Scarp de' tenis

11/3/2022

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E' un vero onore per me la pubblicazione di un'intervista su Scarp de' tenis, il più diffuso "street magazine" in Italia, grazie alla scrittrice Daniela Palumbo che ha voluto rivolgermi le sue domande sul libro "Piccolo Manuale di Storytelling" e più in generale sull'arte della narrazione orale. 
Qui di seguito la parte iniziale dell'intervista, ma vi invito ad acquistare la pubblicazione, disponibile sia cartacea che pdf a questo link , i cui proventi vanno ad attività di sostegno per persone senza dimora.
Questa è la copertina del numero 258 - marzo 2022 - disegnata da Mauro Biani
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Scarp de’ tenis è un giornale, ma anche un progetto sociale. Protagonisti del quale sono le persone senza dimora, e altre persone in situazione di disagio personale o che soffrono forme di esclusione sociale. Il giornale intende dare loro un’occupazione e integrare il loro reddito. Ma intende in primo luogo accompagnarli nella riconquista dell’autostima (che consente di investire sul proprio futuro) e di un’effettiva dignità da cittadini (aiutandoli anzitutto a ottenere la residenza anagrafica, condizione per fruire di ogni altro diritto di cittadinanza e dei servizi sociali territoriali). E poi li sostiene, nel cammino per ricostruirsi una casa, un lavoro, un buono stato di salute, una capacità di risparmio, relazioni con la famiglia e il territorio.
A pag. 32 e seguenti, la mia intervista e poi una ballata inedita dello scrittore Salvatore Niffoi.
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La rivista Scarp de tenis può essere ordinata qui https://www.social-shop.it/
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Le qualità per chi vuol raccontare, secondo Michel Hindenoch

9/2/2022

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PictureMichel Hindenoch, narratore francese

​Tra i maestri​ che mi hanno ispirato, pur non avendolo mai incontrato, c'è il narratore francese Michel Hindenoch. Artista poliedrico, musicista e troubadour, capace di trasmettere una potente carica di umanità, è l'autore di un'opera fondamentale, purtroppo poco nota in Italia, non essendo finora stata tradotta.

Conter, un art? (edito da La Lopioute nel 1997,  ora disponibile presso  www.lejardindesmots.fr) 
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Michel Hindenoch "Le voyage de Solki" extrait de Fruits Rouges

​Lo ringrazio di cuore per aver autorizzato la pubblicazione in questo blog di una mia traduzione, un brano del libro in cui l'Autore elenca le qualità essenziali per chi vuol raccontare:

​Un narratore può utilizzare ogni sorta di talento, ma ci sono delle qualità di cui difficilmente si può fare a meno. Queste qualità sono cinque: 
una voce, una lingua, un corpo, un cuore, un giardino

Una voce: forte e generosa allo stesso tempo, per pretendere di farsi pubblica, di rivolgersi a molti. Una voce, cioè, che sia consapevole del territorio in cui si muove. Una voce flessibile, capace di tradire la più piccola emozione, il più trascurabile stato d'animo, una voce espressiva, sincera, giusta, aperta, vicina alla confessione.

Una lingua: svelta, pronta a caratterizzare in qualche parola una situazione, un profilo, un paesaggio. Fatta di parole semplici e soprattutto concrete (è solo accontentandosi di dire l'apparenza delle cose che le si fa apparire). Una lingua comune, che sia compresa dal maggior numero di persone. Una lingua che cammina, salta, corre, si stupisce davanti alle cose. Una lingua orale: che ha l'umiltà di non arrestare il corso degli eventi per descriverli, ma che si accontenta del tempo di cui dispone. Una lingua viva, in continua nascita. Una lingua, infine, forte, libera, feconda, pronta a mettere al mondo nuove creature.

Un corpo. Perché la presenza è inevitabile. Ma un corpo che avrà la funzione non di agire, come nell'attore, quanto di essere "in presenza" delle cose. E naturalmente delle cose virtuali, immaginate, ricordate, piuttosto che delle cose reali che ci portano solo a distrarci da questo sogno corporale. Un corpo che "vede", "sente", "gusta", "respira", "tocca" le cose. E la parte del nostro corpo che si mette maggiormente in gioco in questa attività è la pelle, tutta la superficie della nostra pelle. Con le sue zone specializzate che sono: l'orecchio, l'occhio, il palmo delle mani, l'estremità delle dita, la pianta dei piedi, il naso, il palato, fino all'interno del corpo, dei polmoni, della pancia. E' proprio soltanto con la pelle che siamo in presenza delle cose. E' questa parte del corpo che dovremmo coltivare.

Un cuore. Grande. Grande il più possibile. Luogo dei sentimenti, ma prima di tutto sede di due virtù preziose necessarie ad ogni narratore: il coraggio, per osare esporsi in questo luogo. Il coraggio di mettersi così allo scoperto davanti agli altri, talmente più numerosi dell'io. Il coraggio di dire ciò che si vorrebbe mantenere segreto. Il coraggio anche di tacere, di lasciare talvolta parlare il silenzio al nostro posto. Il coraggio di partire a rischio di perdersi in una storia che non si capisce mai del tutto. L'altra virtù necessaria è la generosità. Ricevere l'uditorio piuttosto che attendere di essere ricevuto da esso. Invitare di buon cuore chi non si conosce, amarlo prima ancora che lui ci ami. Affidarsi agli altri. Lasciarli liberi di aderire o di rifiutarsi. Affidarsi alla storia, quella tana del lupo da cui si spera di uscire sani e salvi, e liberi soprattutto! La fiducia che permette di andare fino alla fine delle cose, alla fine del mondo qualsiasi cosa accada. La fiducia che permette di credere. Credere alle storie  che si raccontano, credere prima di tutto noi che si tratta di storie vere, prima di sperare di farle credere ad altri. Nel caso peggiore, credere senza gli altri, essere l'ultimo dei Mohicani. Ma il cuore è anche la sede della nostra identità profonda. E' il centro di noi stessi. Il luogo da cui provengono tutti i nostri desideri, opinioni, amori, talenti. Perché non si tratta di delegare il nostro compito ad altri, fosse anche un personaggio-narratore che potrebbe prendere il rischio al nostro posto, o che potrebbe cavarsela meglio di noi. E' il luogo della propria realizzazione. Dove si sposano le ombre e le luci dell'io. Il luogo unico dell'unico narratore al mondo che tutti attendono. Il solo capace di estrarre dal suo dire una parola, cioè un albero di luce che gli appartenga dalla foglia più alta fino alle radici più profonde. Il solo capace di mettere al mondo degli alberi interi.
​
Rimane, infine, da dare a questo narratore un posto nel mondo, un reame, un territorio:
un giardino. In questo giardino crescono sogni, desideri, piaceri, sofferenze, idee, ricordi. E' in questo giardino che si trova il nostro repertorio. Non vi crescerà qualsiasi storia: solo il seme che si sente a suo agio germoglierà. Il nostro repertorio è proprio una creazione personale. Questo giardino non può ricevere i sogni e i desideri che non ci appartengono, non è un giardino pubblico. E' fatto dei nostri segreti. Le erbacce che vi entrano sono le convenzioni, le convenienze, i clichés, i desideri degli altri, e i cadaveri delle nostre idee defunte. Bisogna estirparle. Con pazienza e senza stancarsi. Qualche volta un'erbaccia resiste e si ostina a rimanere nel nostro giardino. E noi finiamo per adottarla. Allora essa diventerà una nuova pianta, e va bene così, ma non ricevera il nostro riconoscimento se non al prezzo di una lotta lunga e valorosa con il giardiniere.
Ecco perché i più grandi narratori non hanno mai potuto portare con sé più di una cinquantina di storie per volta. Al massimo un giorno e una notte di parola viva. ...

Ecco dunque i cinque luoghi da cui il narratore attinge la sua presenza.
E questa presenza dovrà tendere verso la qualità suprema della pelle: la trasparenza.
Se non si vuole fare da schermo e nascondere la storia, bisogna che la più piccola goffaggine come la più piccola abilità non facciano di lui un narratore opaco.La trasparenza è quella leggerezza che ci può dare soltanto il dono totale di sé. Più si diventa abili e più bisogna bruciare. Bruciare tutto, senza reticenze. Non sperare altro che scomparire. Non sperare di conservare o conquistare qualcosa. Dimenticarsi. Essere una cavalcatura per la propria storia e non cavalcarla. 
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I racconti sono delle creature avide di potersi incarnare. Mi sono trovato a dire che sono fatti per essere mangiati. E' vero! Ma da quelli che ascoltano. E prima di questo bisogna che abbiano, i racconti, divorato un narratore. 
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Il mio piccolo manuale di Storytelling o ...

29/6/2021

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... del raccontare con la voce

Nato per rimettere in ordine le parole (che cos'è lo "storytelling" che va tanto ti moda?), si trasforma pagina dopo pagina in uno strumento per ritrovare prima di tutto il piacere di ascoltare storie raccontate con la sola voce, senza tecnologia o effetti speciali, per poi esercitarsi nella ricerca e nella narrazione.
Il libro è disponibile in forma ebook, distribuito da Book Republic su tutte le piattaforme online, mentre la versione cartacea può essere richiesta direttamente a archividelsud@gmail.com 
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L'immagine di copertina si ispira ad una fotografia che ho scattato nel 2018 durante il Festival dei narratori tunisini "fdawi" a Sousse. In questa immagine si vede un ragazzo che ripete la sua storia all'insegnante prima di esibirsi davanti al pubblico. Il festival aveva infatti organizzato quell'anno un concorso per le scuole, per diffondere e mantenere viva anche tra i più giovani l'arte della narrazione orale. Ed è ciò che mi propongo anche io con questo libro.
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Nella quarta di copertina, invece, mi trovo a fare una delle cose che amo di più: la ricerca sul campo, ascoltare storie di vita, saggezza e pratiche antiche. In questo caso la persona intervistata è un pescatore e costruttore di nasse.
(Le immagini sono realizzate da Maria Francesca Melara, la grafica di copertina è di Mohammed Hassona, l'impaginazione di Sara Pilloni)
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Questo è l'indice del volume:
Introduzione
Per chi
Perché?
Quanto è antica l’arte del raccontare
Ascoltare
Alla ricerca di storie
L’indagine sul campo
La ricerca delle varianti
Tipi e motivi: la classificazione internazionale
Fonti orali indirette: gli archivi sonori
Le fonti scritte
Comparare le varianti
Il rischio di una storia unica
Il restauro
Ciò che si perde
L’improvvisazione
Contesti e occasioni del narrare
Il repertorio
Storie di paura
A proposito del significato delle fiabe
Diritti da rispettare
Imparare a raccontare
Mandare a memoria
Tecniche per la prima memorizzazione
Le prove
La voce
Il timbro
Il respiro
Prosodia e paralinguaggio
Comunicazione interattiva
La gestualità
Il linguaggio verbale
Tecniche della performance orale
Passiamo alla pratica: Raccontiamo davanti ad un uditorio!
Adeguare il repertorio al contesto
Prima della performance
La performance: inizio-narrazione-chiusura
Dopo la performance
Costruire gruppi e comunità di storytellers
Conclusioni
Sezione Approfondimenti
Bibliografia
Sitografia
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Il "Piccolo Manuale di Storytelling o del Raccontare con la Voce" è uno strumento per capire e praticare l'arte della narrazione orale. Abbiamo bisogno di narratori e narratrici di questo tempo, per ricucire i fili che ci legano alle generazioni passate e per tessere i legami tra le persone nelle comunità di oggi. Siamo tutte e tutti storytellers, non occorre aspettare di avere le rughe. Ma c’è un metodo e una disciplina. Raccontare è il modo più sicuro, duraturo ed ecologico di lasciare la nostra buona impronta sulla terra.
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Il ritmo di una cultura - Pasqua 2021

4/4/2021

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​Fede popolare e bellezza nel ritmo culturale che accompagna il ciclo naturale delle stagioni

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Fotogramma dal film "Nostalghia" di Andrei Tarkovskij
Ogni anno mia madre, appena dopo l'inizio della Quaresima, mette grano e lenticchie nei piatti antichi, li irrora d'acqua e li sistema sotto le corbule (cesti intrecciati a mano in steli di asfodelo). I grani tenuti all'ombra e costantemente inumiditi germogliano, ma in un modo particolare: il loro stelo si spinge verso l'alto in cerca della luce, mantenendo piccole foglie pallide a causa del buio, che impedisce la sintesi della clorofilla. 
Tutta la famiglia segue la crescita, le nipoti vanno a controllare sollevando un poco la corbula e si meravigliano, le figlie chiedono come va la crescita, se per Pasqua saranno pronti. Perché poi, questo rito, è tutto femminile. 
All'inizio della settimana santa, i germogli sono alti circa venti centimetri,  vengono adornati con nastri e fiori e portati al "sepolcro", la cappella allestita per i giorni della Passione di Gesù. 
In Sardegna il piatto di germogli così adornato lo chiamiamo "su nènniri" o "su lavoreddu". Si possono rintracciare uguali tradizioni in area mediterranea e balcanica, forse legate insieme dalla chiesa bizantina. Ma è certo che il rituale affonda radici in età precristiana, fino alla Grecia antica e ancora più indietro, alle prime civiltà agricole. Il controllo dei semi e della crescita, in questo caso costretta all'assenza di luce, tutto sotto la regia di mani femminili, ci porta verso gli albori dell'agricoltura. 
Tratti pagani sopravvivono anche nei rituali cristiani praticati in Sardegna fino a poco tempo fa: si racconta che su nènniri si portava in campagna e si spezzava sul terreno, come auspicio per il buon raccolto.
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Nènniri di Peppina Fancellu, Pasqua 2021
​Riguardo questa tradizione, si rammentano i "giardini di Adone",  in onore al dio morto giovane. 

Ma vale anche ciò che rappresenta per noi, nel nostro presente, questo rito e il suo ritmo. Tra il "memento mori" del mercoledì delle ceneri e la rinascita della Pasqua, c'è il ripetersi lento e preciso di gesti, c'è l'attesa paziente, la cura e il controllo per la buona riuscita, c'è infine, con l'arrivo della prima luna piena di primavera, l'abbellimento dei fiori per il sepolcro del Dio che ogni anno muore e rinasce. C'è dentro tutto il ritmo di una cultura. 

Il poeta Pierluigi Cappello racconta in Questa libertà il suo incontro con Silvio, il costruttore di gerle: 
"Io, piccolo com'ero, non mi chiedevo affatto da dove venisse quella sequenza di gesti naturalmente sorvegliati, mi accontentavo di seguirne la precisione e la reticenza ... Me lo son chiesto più tardi, da uomo fatto: qualcuno avrà insegnato a Silvio, magari quand'era bambino, perché ai suoi tempi si cominciava a lavorare presto, gli avrà insegnato a intrecciare, a preparare le festuche, a cercare i rami di salice giusti lungo il fiume e anche lui avrà dovuto ripetere, ostinato e devoto, cercando di impossessarsi di un ritmo, finché quel ritmo si sarà impossessato di lui, delle sue mani, delle sue dita. Così, quello che vedevo non era un vecchietto ... ma una cultura al lavoro, risalita dai tempi lungo una catena viva di uomini che l'avevano condotta fin lì, e quelle che agivano non erano mani, ma il ritmo stesso di quella cultura".
(P. Cappello, Questa libertà, Bur Rizzoli, 2016)
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Pro sa Die Internatzionale de sa Limba Mama 2021, faeddamos de contos, contascias e paristorias

20/2/2021

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Su 21 de Frealzu est sa Die de sa Limba Mama in totu su mundu pro initziativa de s'UNESCO. Mirade a su situ ufitziale:
​https://www.un.org/en/observances/mother-language-day

Est una cosa bella meda custa die, ca bi sunt limbas medas in su mundu chi sunu iscumparende. Cun sas limbas si c'andat puru sa biodiversidade culturale e totu parent chi si sient abizados como chi est una perdida manna meda.
Su sardu puru, già l'ischimos, est in perigulu. Tocat a lu faeddare. No b'at ateru remediu.
Pro s'ocasione bos faeddo de contos in sardu, e custu at a essere su primu post in sardu in custu blog. 
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Picturezente Maasai contende contos

No isco narrere cando e comente apo incumintzadu cun custu serrone de sos contos,
ca est unu serrone, una vera mania, o una passione, insomma.
In totue inue ando, deo chirco sos contos, sas istorias chi nos ant passadu sos mannos,
chi siant in sos liberos o in sos ammentos de sa zente.
E mi piagher meda a aiscultare.
Como deo puru apo incumintzadu a los narrere, custos contos, ma prima de lu podere faghere
apo iscultadu meda e istudiadu sa traditzione de zente e de logos divescios.
Apo bortadu finas un istudiu dae su frantzesu in italianu, Poetica della fiaba de Nicole Belmont,
(imprentadu dae Sellerio), poi apo cuntivizadu publicaziones e cd subra e sa "narrazione orale" .
Ma su chi mi piaghet prus de totu est a los intendere, sos contos, no solu sos nostros de
Sardigna, ma de totu su mundu. 







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Como sos contos chi naraiant cun sa 'oghe sunu in sos liberos e si poden puru bidere a donzi ora
in sa televisione, in su dvd, in internet ... E chie b'est restadu prusu a aiscurtare? Est pro
cussu chi no b'at pius nisciunu chi si ponet a contare, e a chie contat, si no b'at nisciunu chi aiscurtat? 

"Custu est su contu", gai incomintzaiana sempre cussos chi ischian contare 'ene,
comente aiant imparadu dae ajaja, dae manneddu (como si narat nonna, nonno).
E no si poniant tzertu a contare a donzi ora, gai, cando lis beniat sa gana.
No! Bi fit un'ora pro trabagliare e un'ora pro pasare, unu mamentu pro
arrejonare e unu mamentu pro intender contos.
Custu mamentu fit s'ora pius afaca a su note, a s'iscuru, a s'ora de si drommire.
Incue sos arrejonos si cagliaiant, ca fit s'ora de pasare puru sa conca, sos pensamentos,
sas tristuras. E tando s'aberiat un àteru mundu.

Sos mannos naraiant chi su mamentu pro sos contos fit custu, prima de si
c'andare a drommire, e chi si contaiada a sos pitzinnos fintzas pro li
fagher irmentigare su famene. Ma no fi solu pro cussu, tzertu, e no fit solu
pro sos pitzinnos. In totu sas biddas inue deo so andada chirchende contanscias e
paristorias, totu m'ana nadu chi bit fit sempre calincunu chi ischiat
contare mezus de sos àteros, e totu in sa bidda, mannos e minores, si
setziant in tundu ainnanti a custu mastru de contanscias e li
dimandiana: "dà, ajò, contàenos unu contu ...". E tando isse (o issa)
incomintzaiada: custu est su contu ...

Como  bois chi sezis legende, si no sezis pius tantu tantu
giovanes, fossi bos sezis ammentende de calincunu chi azis connotu, in sa
pitzinnìa, chi azis aiscurtadu e bidu gai, setzidu in sa carrela o in sa petza, o afaca a
sa tziminea,  contande cun d'una oghe bella, cosas chi mai nisciunu at bidu
in custu mundu ...

Custu est su contu, in d'una bidda povera, in d'unu tempus lontanu - gai
incomintzaina sos mastros contadores,  puru si in Sardigna no ch'est mai istada,
a su chi nd'isco deo, una professione vera e propria comente podet essere
su cantastorie in Sicilia, su contastorie. Ma totu s'ammentana chi bi fit sempre
calincunu chi ischiat sos contos, e no fit solu 'onu a s'ammentare medas istorias,
ma fit bonu ispetzialmente a las narrere, cun sa 'oghe giusta, cun sas peraulas giustas,
cun s'andantzia giusta, ca cussu puru bi cheret.

Contare istorias fidi, e est puru oe, un'arte vera e propria, un'arte de sa
peraula, de su faeddu. Cale sun sos "ingredientes" pro contare 'ene, de unu
manera chi su contu resèssit a narrere totu cussu chi devet narrere. Si
pensamos a su contu tipo barzelletta, lu cumprendimos luego: si chie contat
faghet riere, andat bene. Si ti pones a contare e no faghes riere a
nisciunu, b'at calchi cosa chi no at funtzionadu. Sos contos sunt sa matessi
cosa, si che restamos a buca aberta, no 'idimos piu chi est faeddende, ma
bidimos baddes e montes, e funtanas e casteddos, e Antoneddu currende e s'orcu
majalzu pissighendelu, tando cheret narrer chi su contu est funtzionende bene.

Amos nadu prima chi bi cheriat unu "tempus". In medas logos inue b'ada una
grande traditzione de contos e de contadores, comente in su mundu
arabo-musulmano, si naraiat chi no si doviat mai contare a de die.
Bisonzaiat a aisetare su notte. Como puru est gai, inie. Si andades in
Marocco a Marrakesh est una cosa bella meda, chi no si podet immenticare, de
'idere comente in custa piatta manna manna, chi si narat Jemaa El-Fna, a de
die b'est su mercadu, su suk li narana, e comente falada su note, che
retirant totu sa mercantzias e cumparini sos contadores. E custu sutzedidi
dae tempus atesu atesu. Bi nd'at de ogni manera, chie solu, chi cun àteros,
chie acumpagnadu dae musicistas, e sa zente si ponet in tundu, in giru in
giru, e totu mannos e minores aiscultana atentos, carchi orta riene, ma su
pius ana s'espressione incantada de chie est immaginende.

Duncas, bi cheret su note, adaghi pasada sa mente, sa rejone, e no podimos
lassare trazare in d'un àteru mundu chi nisciunu a bidu mai ma chi es beru.
Unu pitzinnu una 'orta mi narada: ma sas fadas no esistini de aberu. E
deo apo nadu: cussu no l'isco, ma su contu de sas fadas, cussu già est beru,
ca l'apo intesu deo".

Sighimos a narrer  de sos "ingredientes" pro contare bene. Si contada a
de note ca b'at iscuru, et b'at mudesa. Custa est un'àtera cosa netzesaria,
deo penso. Pro narrere e aiscurtare unu contu chere chi tott'in giru bi siat
mudesa, mudigore, silenzio insomma. Chi no s'intendant tzoccos de tribagliu o
boghes de giogu o sonos de festa e de ballu.
E podimos puru ammentare inue si contaiada e in cale ocasione, bi fini mamentos
inue su contu fidi netzesariu, fidi propriu dimandadu: ajò, contaenos unu contu.

In sa coghina sos seros de ierru afaca a sa tziminea, o a su ochile.
S'intendiat solu su fogu tenzende e tzachettende e su 'entu a fora, sulende.

In sa carrela, in s'arruga, sos seros de istiu, afaca a sos giogos chi sos
pitzinnos  faghian in carrela, setzidu in d'una petza bi fit sempre unu
contadore.

In s'aposentu pro s'ifarinolzu de su trigu moriscu, chi fit unu tribagliu meda longu e ifadosu. 
Tando gimaiant sempre calincunu chi ischiat contos pro faghere riere e pro faghere timire.
E gai passaiat s'ora ... totu umpare.


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E ... como narade-nos s'ammentu 'ostru...
Podides iscriere a enedin@gmail.com
 

(pedo iscusa si no apo iscritu in sa Limba Sarda Comuna, e si apo fatu isbaglios. Ispero chi m'azis cumpresu)
Pro carchi ajudu apo chircadu in su
Ditzionariu Sardu in Linea 
http://ditzionariu.sardegnacultura.it/ 
) 

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Gramsci e i racconti

22/1/2021

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22 gennaio 1891 - Gramsci nasceva  130 anni fa
21 gennaio 1921, 100 anni fa, fondava insieme ad altri compagni il Partito Comunista d'Italia.
Possiamo raccontarlo anche attraverso le piccole storie dell'infanzia, le fiabe e novelle tratte dai Quaderni e dalle Lettere dal Carcere. Ma non dimentichiamo di aggiungere che furono scritte in carcere da un intellettuale comunista e antifascista.

Può sorprendere che il rigoroso pensatore marxista e comunista si sia interessato di fiabe e racconti fantastici. Può sorprendere che abbia trovato il tempo di occuparsi di cose del genere durante la durissima costrizione carceraria. 
D'altro canto, si può anche pensare di prendere questi racconti e novelle, estrapolarli dal loro contesto e pubblicarli magari con il titolo "Fiabe di Antonio Gramsci", quasi fosse uno scrittore per l'infanzia.
Facciamo un gran torto ad uno dei più grandi pensatori del XX secolo se, da una parte consideriamo come secondari questi particolari testi, o dall'altra li utilizziamo fuori dal loro contesto, senza parlare anche delle idee politiche e filosofiche che costituiscono la forza del suo pensiero.

Riflettendo su questo difficile crinale, qualche anno fa, ho pensato di creare uno spettacolo che potesse narrare nello spazio di un'ora chi era Gramsci attraverso i suoi racconti, per invitare poi ad approfondire a scuola o in famiglia. Ho pensato di servirmi del teatrino kamishibai e ho creato una serie di immagini (in modo molto artigianale) che accompagnano il racconto della vita di Nino, il bambino che da Ghilarza affronta il "mondo grande e terribile" sorretto sempre da una forza morale che si forgia già nella sua infanzia.
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Gramsci ha il gusto del racconto, era un vero narratore. Si divertiva a raccontare storie, lo si sente nelle lettere ai familiari, non solo ai due figli, ma anche alla cognata, alla madre, alla moglie. Un po' perché voleva rassicurare sul suo stato, e un po' perché si sente che vuole risollevare il tono di una corrispondenza, che altrimenti sarebbe stata molto penosa da una parte e dall'altra. Si sforza, invece, di trovare piccole storie divertenti tra i suoi ricordi, ma anche nella sua vita in carcere. Come la storia del maiale arrestato, accaduta nel periodo di confino a Ustica. 
Ha il dono del narratore, perché ha avuto l'esperienza da bambino di ascoltare i vecchi raccontare e tutto quel mondo fantastico riemerge nel tempo doloroso del carcere. 
Tuttavia non è certo un mezzo per costruirsi un mondo nostalgico nel quale rifugiarsi. Al contrario vi ritrova i valori che hanno poi dato forma al suo pensiero, sia di filosofo che di politico.
La vicinanza alle masse popolari, la comprensione dello sfruttamento dei lavoratori, il senso di subalternità rispetto a classi egemoni. Sono concetti che Gramsci, prima che sui libri, ha sperimentato sulla propria pelle. Perciò la filosofia della prassi trova in lui uno dei più alti interpreti. E resta uno degli intellettuali italiani più studiati in tutto il mondo.
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Ho potuto verificare quanto Gramsci sia ancora oggi conosciuto, letto, amato all'estero. 
In Scozia, nel presentarmi la figura del grande folklorista Hamish Henderson mi dissero subito che era stato il primo traduttore in inglese delle Lettere dal Carcere di Gramsci. Più tardi ho scoperto che Henderson sentì per la prima volta parlare del nostro filosofo dai partigiani, al fianco dei quali combatteva tra le forze alleate di liberazione. Henderson sopravvisse alla battaglia di Anzio e, una volta tornato nella sua Scozia, tutto ciò che leggeva nelle Lettere dal Carcere a proposito di folklore e ruolo degli intellettuali,  gli farà da guida per iniziare le sue campagne di raccolta dei canti e ballate popolari scozzesi, un lavoro immane che ha lasciato il segno nel grande patrimonio culturale britannico.
​










​Più di recente ho avuto modo di portare i racconti di Gramsci in Tunisia, e anche qui ho scoperto come il filosofo sia ben conosciuto non solo nei circoli di artisti e intellettuali, ma anche tra gli insegnanti della scuola primaria. Ho potuto raccontare le storie che il filosofo scriveva ai figli, in francese con traduzione simultanea in arabo, davanti a ragazzi e ragazze di 10-11 anni. Al termine mi hanno chiesto di lasciare su un pannello le frasi con cui concludo sempre lo spettacolo, le famose frasi di esortazione ai giovani che Gramsci pubblicò il 1° maggio 1919 sul primo numero dell'Ordine Nuovo: 

Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.
Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo.
​Organizzatevi,
 perché avremo bisogno di tutta la nostra forza
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Si possono trovare molte edizioni dei "racconti" di Gramsci, il corpus di fiabe dei Fratelli Grimm tradotte dal tedesco e contenute nei Quaderni, i famosi racconti tratti dalle lettere ai figli come "L'albero del riccio", "Il topo e la montagna", ecc. 
Ma il consiglio è quello di leggerli e poi raccontarli sempre all'interno del contesto storico e del pensiero gramsciano nella sua completezza. Cioè, se raccontiamo L'Albero del riccio, ricordiamo sempre che è stato scritto in carcere da un intellettuale comunista e antifascista!
Riferimenti:
"Lettere dal Carcere" varie edizioni
"Vita di Antonio Gramsci" di Giuseppe Fiori, varie edizioni a partire dal 1966
"Gramsci nel mondo arabo" (a cura di P. Manduchi, A. Marchi, G. Vacca, Il Mulino, 2017)
"Antonio Gramsci Letters from Prison" tradotte da Hamish Henderson, varie edizioni dal 1974




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Da Prometeo a Sant'Antonio o come il fuoco arrivò sulla terra

10/1/2021

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E' il momento dell'anno in cui il buio inizia a diminuire, la luce ritorna sulla terra. E si celebra chi ha portato la luce sotto forma di fuoco. Nella cultura classica domina il mito titanico di Prometeo, ma ve n'è un altro molto diffuso in area mediterranea. E i protagonisti sono un santo, un maialino, e il fusto di una pianta particolare ... 

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Copertina pubblicazione (c) Archivi del Sud edizioni 2015
Prometeo, dopo aver modellato gli uomini dalla terra e dall'acqua, diede loro anche il fuoco, all'insaputa di Zeus, nascondendolo in una ferula, racconta il mito greco.
Il fusto della ferula communis  ha un ruolo anche nella leggenda popolare dove si mescolano elementi pagani e cristiani. Un sincretismo religioso che si manifesta anche nel rito associato al santo, celebrato con grandi fuochi, inutilmente osteggiati e poi tollerati dalla Chiesa.
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S. Antonio abate, statua lignea, Cattedrale, Castelsardo
PictureFalò di San'Antonio a Cuglieri 2018 (foto Enedina Sanna)

​Si avvicina il 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate o del fuoco, raffigurato sempre con il suo bastone ed il fedele maialino. Protettore degli animali domestici, era caro anche ad Antonio Gramsci, che aveva preso il nome dal santo, essendo egli nato il 22 gennaio: "... al quale tengo moltissimo per tante ragioni di carattere magico" scrive in una lettera ai familiari.
Vissuto tra il 251 e il 356 d.C. in Egitto, la sua biografia si conosce bene grazie alla testimonianza del suo discepolo Attanasio. Visse oltre cent'anni, in gran parte trascorsi da eremita e venerato già in vita come un santo. 

Ho narrato molte volte la leggenda popolare diffusa in Sardegna e ho introdotto alcune variazioni, suggerite dall'interazione con i piccoli ascoltatori. 
​                                                                              ***
Avrete sicuramente sentito parlare del mito di Prometeo che donò il fuoco agli uomini, dopo averlo rubato agli dèi. In Sardegna raccontiamo un’altra storia. Qui è Sant’Antonio ad aver portato il fuoco sulla terra, con l’aiuto del suo maialino. Ascoltate come andarono le cose.
 
C’è stato un tempo in cui gli uomini non conoscevano il fuoco. O meglio, lo conoscevano, ma non lo possedevano ancora. Riuscite ad immaginare come era dura la vita senza fuoco? (lascio che siano i bambini ad elencare: non ci si poteva riscaldare, non c'era luce per la notte, non si potevano forgiare i metalli, non si poteva cucinare, e così via). 
 
Così, gli uomini, infreddoliti e stanchi di quella misera vita, decisero di andare a chiedere aiuto a Sant’Antonio, che viveva da eremita in una grotta.
Gli uomini vanno a cercarlo, lo chiamano e lui esce dalla sua grotta, accompagnato da un maialino. Perché dovete sapere che Sant’Antonio, prima di essere santo, era porcaro, allevava maiali, e quando aveva deciso di ritirarsi in preghiera, aveva preso con sé un maialino che lo seguiva dappertutto come un cucciolo.
 
Allora, quando gli uomini lo videro arrivare, gli rivolsero queste parole: “Sant’Antonio, facci la carità, siamo uomini della terra, siamo stanchi, abbiamo freddo, fame, procuraci il fuoco”. Il santo provò compassione per quegli uomini e disse:
“Sì, ve lo procuro il fuoco, so io dove trovarlo, dove brucia eterno!”. Dove pensate che vada S. Antonio? (nel vulcano! dicono in coro i bambini. E io non li contraddico, certo. Ma aggiungo che in fondo fondo a questo vulcano, c'è l'Inferno, e così posso continuare la storia, ché se no sarebbe finita qui!).

E Sant’Antonio parte, seguito dal suo fedele maialino che scodinzola come un cane, felice dell’escursione. Prima di partire il santo prende con sé un lungo bastone di ferula.
Ora la ferula è una pianta molto comune in Sardegna nei terreni a pascolo, e questa pianta ha un legno che all’interno è cavo e spugnoso, e questo come vedremo ha la sua importanza per questa storia.
​
Sant’Antonio arriva al grande portale dell’Inferno e con il suo bastone bussò. TOC TOC, toc toc, toc toc, si sente l’eco dentro l’Inferno che si ripete nei gironi che scendono giù verso il centro della terra.
I diavoli non aspettavano visite: “Chi è?” gridano.  “Sono un uomo della terra - dice Sant’Antonio - fatemi entrare un poco a scaldarmi”. Ma i diavoli capiscono subito che quello è un santo e non può entrare nell’Inferno. Cercano di cacciarlo via, ma Sant’Antonio riprende a bussare, TOC TOC, toc toc toc toc …
 
I diavoli allora iniziarono a preoccuparsi che tutto quel bussare non finisse per svegliare il grande capo, Lucifero, che dormiva negli abissi degli inferi. Allora uno di loro si decise ad aprire il portone, ma solo per dire a Sant’Antonio di andarsene. Ebbene, non fece neanche in tempo a dire una parola, che il maialino non appena vede schiudersi il portone, si infilò dentro e incominciò a correre, a gettare uno scompiglio che non si era mai vista tanta confusione nell’Inferno.
I diavoli lo inseguirono, cercarono di acchiapparlo, ma niente, lui sgusciava via, e grugniva, grufolava, tutto eccitato per tutte quelle scintille, il fumo, e le fiamme. Era così felice e pieno di gioia! Un vero scandalo per l'Inferno. Insomma, alla fine i diavoli si videro costretti a tornare al portone dove avevano lasciato Sant’Antonio e lo fecero entrare con l’ordine di riprendere il suo maialino e riportare la calma nell’Inferno.
Detto fatto: bastò toccare il maialino con il bastone di ferula e lui ritornò quieto ai piedi del santo.
 
Ma ormai Sant’Antonio era entrato nell’Inferno e così pregò i diavoli di lasciarlo lì per un po’, giusto il tempo di scaldarsi un po’ i piedi.
I diavoli acconsentirono, non avevano tempo di occuparsi di lui, gli dissero di mettersi in un angolo e di non far perdere loro altro tempo, dovendo rimettere tutto in ordine e recuperare il tempo perso.
Sapete, i diavoli tengono sempre tutto in ordine e hanno tutto il loro tempo organizzato, non possono perdere un solo secondo.
Insomma, mentre i diavoli erano distratti nel loro lavoro, Sant’Antonio sapete cosa fa?
Prende il suo bastone di ferula e lo accosta alle braci ardenti.
Una scintilla entra dentro il bastone cavo e il legno spugnoso incomincia a bruciare dentro, senza che si veda niente all’esterno.
Quando Sant’Antonio capisce che il fuoco è entrato dentro il suo bastone, incomincia ad allontanarsi verso l’uscita, salutando e ringraziando i diavoli, che lo accompagnano subito al portone ben felici che se ne vada via con il suo maialino.
Sant’Antonio riprende il cammino per salire sulla terra, dove arriva in una notte fredda e stellata.
Gli uomini lo aspettavano e quando il santo li vide incominciò ad agitare nell’aria il bastone da cui sprizzavano le scintille. E disse:

                      Fogu fogu / peri su logu / peri su mundu / fogu iucundu

                                                                         ***
La festa di Sant'Antonio con i suoi fuochi segna l'inizio del Carnevale in tutta l'isola.






































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* L'immagine della copertina si riferisce alla pubblicazione bilingue italiano/inglese  realizzata da Archivi del Sud nel 2015
​   (grafica Marica Busia)
 



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Un'altra storia per Natale. Dal folklore danese, attraverso la traduzione inglese di Stephen Badman: "Il folletto dispettoso" (Knee Breeches)

15/12/2020

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Il folletto dispettoso, si intitola questa storia, ma il titolo in inglese è "Knee Breeches" ovvero 'pantaloni al ginocchio', che come scoprirete, finiranno alla fine a brandelli. Ma vi voglio anche dire, prima di iniziare la lettura, che il folletto nella versione inglese è il "brownie" e in danese è "nisser": una creatura che abita nelle fattorie, dove rende i suoi servizi, a meno che non decida di diventare dispettoso. Per tenerlo buono, i contadini avevano l'abitudine di mettere fuori, ogni sera prima di andare a dormire, una ciotola di porridge. 

C'erano una volta un ragazzo e una ragazza che lavoravano in una fattoria. Il ragazzo era un bel tipo e la ragazza era molto carina, entrambi erano bravi nel loro lavoro e divennero buoni amici.
Nella fattoria viveva anche un brownie, un folletto, che era infatuato della ragazza. Ogni notte, portava acqua fresca e carburante in cucina prima di andare nella stalla, dove lavava e puliva sotto le mucche in modo che tutto fosse perfettamente pulito per quando la ragazza andava a mungerle, la mattina dopo.
Il folletto, però, non era altrettanto ben disposto nei confronti del ragazzo. Quando arrivava la sera e il ragazzo si infilava in cucina per scambiare due parole con la ragazza, il folletto correva sul pavimento di pietra verso la cucina, imitando il passo del proprietario, in modo che il ragazzo si affrettasse a uscire dalla porta sul retro e tornare ai suoi alloggi. Quando la ragazza apriva la porta della cucina per vedere chi c'era fuori, non c'era mai nessuno e lei capiva che era opera del folletto. Anche se faceva tutto il possibile per compiacere la ragazza, trovando sempre piccoli lavori da fare che le rendessero la vita più facile, lei era arrabbiata con lui, perché si comportava in quel modo con il suo ragazzo.
Quando giunse la vigilia della festa del paese, la ragazza preparò per il folletto una ciotola di porridge, come era consuetudine. Per quell’occasione si usava aggiungere una noce di burro che si scioglieva nel porridge, mentre si mescolava. La ragazza era ancora indispettita con il folletto, perciò incise la forma della croce nel porridge, pensando che si sarebbe arrabbiato con lei e avrebbe smesso di starle dietro. Ma il suo piano non funzionò. Il folletto non toccò il porridge, ma non diede fastidio alla ragazza; l'amava così tanto, poverina.
Con l'avvicinarsi del giorno di San Michele, furono fatti i preparativi per la grande festa del raccolto, con musica e balli, che si sarebbe svolta nella ricca tenuta di un vicino. Il contadino, sua moglie, il ragazzo e la ragazza erano stati tutti invitati e negli ultimi giorni prima della festa, ogni momento libero del loro tempo era dedicato alla scelta del loro guardaroba per l'evento. In quel tempo, gli uomini indossavano pantaloni gialli al ginocchio per occasioni importanti e il ragazzo ne possedeva un paio del genere, con bottoni gialli lucidi. Qualche giorno prima della festa, il ragazzo lavò i pantaloni nell'abbeveratoio del cortile, li stirò per eliminare tutte le pieghe e li appese nella stalla ad asciugare.
Ora succede che il folletto va nella stalla quello stesso giorno. Vede i pantaloni stesi nella stalla e si rende conto che appartenevano al ragazzo. La sua gelosia si impadronisce di lui e decide di fare uno scherzo al ragazzo, uno scherzo che gli avrebbe impedito di andare alla festa.
Prende i pantaloni e li appende nella parte più alta della stalla, tutto contento perché sapeva che se il ragazzo non avesse avuto i calzoni da indossare, non sarebbe potuto andare alla festa e non avrebbe potuto ballare con la ragazza.
Il giorno dopo, il ragazzo va nella stalla a ritirare i pantaloni e non riesce a trovarli. Cerca ovunque, ma niente. Ha continuato a cercare fino al giorno della festa, ma non si trovavano da nessuna parte. Il povero ragazzo alla fine si è trovato in una situazione difficile senza via d'uscita; non aveva altra scelta che dire che si sentiva male e che sarebbe rimasto a casa invece di andare alla festa.
Il folletto era felicissimo, sghignazzava tutto contento, ma la sua gioia si trasformò presto in sgomento, quando anche la ragazza si scusò e disse che non sarebbe andata alla festa.
Il ragazzo e la ragazza rimasero a casa da soli e si divertirono moltissimo. Sussurrarono e ridacchiarono, flirtarono un po’ e si scambiarono confidenze, che era l'esatto opposto di ciò che il folletto avrebbe voluto.
Alla fine, il ragazzo confessò alla ragazza che non era davvero malato, ma che i suoi pantaloni erano scomparsi. Lei scoppiò a ridere alla sua confessione, il che diede al folletto un grande piacere mentre ascoltava da dietro la porta.
Il giorno dopo, il ragazzo era nel fienile della stalla, a raccogliere il fieno per il bestiame. Aveva appena gettato via l'ultima balla di fieno, quando vide i suoi pantaloni che pendevano dal punto più alto del fienile.
"Quindi è lì che devi andare", pensò il ragazzo. "Beh, maestro Folletto, forse mi hai giocato un brutto scherzo, ma vediamo chi ride per ultimo."
Lasciò i pantaloni dov'erano, ma più tardi quella notte si intrufolò nella stalla e rimase in attesa del folletto. Non molto tempo dopo, lo vide entrare nella stalla e scavalcare le travi fino ai pantaloni. Li prese, li indossò e iniziò a ballare, saltellando allegramente da una trave all'altra. Rise e parlò da solo, ovviamente molto contento di aver giocato un simile scherzo al ragazzo.
Il giorno dopo, di buon'ora, il ragazzo entrò nella stalla, si arrampicò sulle travi e iniziò a rimuovere tutti i chiodi, lasciando le travi appoggiate dove si trovavano. C'era solo una trave, all'estremità del fienile che aveva lasciato così com’era, poiché i chiodi erano stati piantati troppo in profondità per essere rimossi.
La fattoria aveva un cane da guardia; una bestia selvaggia a cui solo il ragazzo osava avvicinarsi quando era incatenato. Ogni notte, il folletto entrava nell'aia e stuzzicava il cane senza pietà, ma stava sempre attento a rimanere oltre il limite della portata della forte catena, mentre il cane si scagliava contro di lui.
Quando si fece sera, il ragazzo uscì e tolse due anelli dalla catena del cane. Li unì di nuovo insieme con filo di cotone, sapendo benissimo che quando il folletto sarebbe tornato a molestare il cane, questo avrebbe sicuramente spezzato il filo, mentre gli si avvenatava contro con furia.
Più tardi quella notte, quando tutti erano a letto, il ragazzo faceva la guardia dalla finestra. Vide il folletto passeggiare nell'aia e, come al solito, dirigersi verso il cane. Si fermò appena oltre la lunghezza della catena, lo puntò e gli ringhiò, prima di girargli intorno.
"Grr, grr, guh - rowl, guh - rowl," lo provocò. "Non ti piacerebbe mordermi? Grrrr... "
Il cane balzò verso di lui, ruppe il filo di cotone che teneva insieme la catena e affondò i denti nel mantello del folletto, che quasi saltò fuori dalla sua pelle e corse nella stalla, lasciandosi dietro il cappotto, con il cane che gli ringhiava alle calcagna.
Una volta nella stalla, l'unico suo pensiero fu di raggiungere la sicurezza della trave più vicina, ma non appena ci appoggiò il suo peso, sia lui che la trave caddero con un tonfo sul pavimento ricoperto di paglia.
Il cane gli saltò addosso immediatamente e gli diede un bel morso sul sedere. Il folletto si rimise di nuovo sulle sue gambe e si diresse verso la trave successiva. Ma anche questa si schiantò a terra sotto il suo peso e il poverino si ritrovò di nuovo in balia del cane. Ogni trave che provava era lo stesso: cadeva a terra e il cane gli era addosso, strappandogli i vestiti. Alla fine, il folletto raggiunse la sicurezza dell’unica trave che era ancora inchiodata, e lì si sedette a curarsi le ferite, guardando il cane che era in agguato sotto di lui.
Quando spuntò l'alba, il ragazzo si avvicinò di soppiatto alla stalla e trovò il folletto ancora seduto sulla trave. Era immerso nei suoi pensieri, raccogliendo i resti dei bei pantaloni ed esclamando ripetutamente a se stesso: "Sono a brandelli. Sono a brandelli. "
 
La storia non è tutta qui. Comunque il ragazzo e il folletto divennero amici e da quel giorno nessuno andò più a disturbare il cane.


(Tradotto dalla versione inglese pubblicata in "Folk and Fairy Tale from Denmark" - http://www.talltales.me.uk -  
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Stephen Badman e la sua opera sul folklore danese

Stephen Badman è storyteller e performer gallese da 40 anni, ha fondato il Gwent Theatre in Education per l'applicazione del teatro e dello storytelling nell'educazione scolastica. E' traduttore dal danese e per questo collabora con il Dansk Folkemindesamling (Danish folklore archives) e con il Centro di ricerca dialettologica dello Jutland presso la Århus University. 
Ha pubblicato dieci volumi di racconti popolari tradotti in inglese dal danese e i suoi dialetti:
"Tales from Denmark", "More Tales from Denmark", "The Ghost on Horseback", "Three Pieces of good Advice", "The Soldier and Mr Scratch", "Odds and Sods" and "The Cat's Castle".
Gli ultimi libri, `Folk and Fairy Tales from Denmark` vols. 1 & 2,  sono una raccolta delle storie di E T Kristensen e`Folk and Fairy Tales from Denmark` sono le storie raccolte da Jens Kamp.

Molte storie non erano mai state tradotte in un'altra lingua europea, e quindi Badman con il suo infaticabile impegno, ha permesso che fossero conosciute ad un pubblico molto più ampio. Sono tanto più preziose, perché conservano i tratti originali della narrazione popolare autentica, come spiega lo stesso traduttore in queste righe:
"Queste storie fanno parte del canone meravigliosamente ricco dei racconti popolari europei, ma sono comunque uniche in virtù della loro geografia e della società che riflettono. La Danimarca agricola del XVIII e XIX secolo era molto diversa dalla Danimarca di oggi; la maggior parte della brughiera desolata doveva ancora essere ripulita e l'agricoltura, per coloro che si trovavano ai gradini più bassi della scala sociale, era a un livello di sussistenza minimo. Si lavorava nei campi dall'alba al tramonto, prima di tornare a casa e continuare a lavorare (cardatura, filatura, tessitura, maglieria e mille faccende domestiche) alla luce di una lampada a olio o di un fuoco di torba.
Quando il tempo del raccolto arrivava nelle grandi tenute c'era una migrazione di massa di uomini e donne in cerca di lavoro. Sarebbero stati ospitati nei granai e di notte, al termine della giornata di lavoro, avrebbero raccontato le loro storie dove l'eroe era il povero pastore che si prendeva cura del suo gregge nella brughiera e lo scudiero locale veniva elevato a "Re". nel castello`.
Le fiabe che ci sono familiari ora, tuttavia, hanno perso l'immediatezza e la "verità" del racconto orale e sono state adattate per fornire poco più che intrattenimento per i bambini. Nel XIX e XX secolo, le fiabe di magia divennero inestricabilmente legate alla letteratura per bambini. Le storie sono state modificate e disinfettate; i temi per adulti sono stati omessi per rendere le storie più accettabili. Fu aggiunto un tono moralizzante, in particolare durante l'età vittoriana; una caratteristica spesso vista in alcuni dei racconti realizzati da Grundtvig e in alcune delle storie di Jens Kamp.


Nel ventesimo secolo, le fiabe sono diventate sinonimo di Walt Disney che ha rivolto i suoi adattamenti cinematografici a bambini e famiglie. La grafica distorceva la vera natura dei motivi nelle storie e al pubblico si fornivano immagini già pronte e spesso carine, che riducevano la necessità di utilizzare l'interpretazione personale e l'immaginazione. I suoi film sono ancora molto popolari e offrono un'esperienza confortevole per il pubblico, completa di lieto fine obbligatorio.
Si può affermare che questa evoluzione negli ultimi due secoli abbia decisamente avviato la fiaba di magia sulla via dell'estinzione, riducendola a una rappresentazione unidimensionale del trionfo del bene sul male, e privandola della sua vera natura per adattarla al consumo familiare.

Le storie in "Tales from Denmark" rivisitano la tradizione orale e sono pensate per essere lette ad alta voce; sono state registrate nel dialetto e nei modelli di discorso dei narratori, senza alcun tentativo di dare loro una patina letteraria. Gli stessi narratori provenivano da contesti rurali e andavano a raccontare tra agricoltori, casalinghe, allevatori e insegnanti. Hanno il pregio di essere raccolti alla fonte e riflettono le voci dei narratori originali.
Le storie non sono adattamenti unidimensionali ritenuti adatti per un pomeriggio rilassante di intrattenimento familiare, ma hanno la capacità di fornire le basi per discussioni significative. I temi universali dell'eredità, delle relazioni e delle dinamiche familiari, dello status, del bene e del male sono ancora rilevanti nella società odierna, come quando furono registrati per la prima volta. I temi e le questioni sono senza tempo; purtroppo, è la nostra mancanza di tempo che ha oscurato la loro importanza".
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Ringrazio Stephen Badman per avermi permesso di pubblicare qui la mia traduzione di "Knee Breeches".L'intento tra storyteller è sempre quello di far circolare le storie e di diffonderle il più possibile, affinché vengano ancora raccontate e tenute in vita. Ma bisogna sempre chiedere l'autorizzazione a chi ce le consegna! 
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Una storia di Natale. Dal repertorio del grande storyteller scozzese Duncan Williamson

10/12/2020

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Con il permesso di Linda Williamson, pubblico la traduzione italiana di questa preziosa storia di Natale, raccontata dal grande narratore scozzese Duncan Williamson (1928-2007). La sua opera continua ad essere trasmessa da Linda, nella sua pagina facebook potrete trovare tante bellissime storie.

L’Albero di Natale e il Pettirosso
Come fu che l’abete diventò sempreverde

​Era il tempo di Natale quando un piccolo pettirosso se ne andava saltellando nella foresta.
E alcuni bambini che giocavano fuori casa lo videro. Ora, i pettirossi sono molto socievoli, dovunque voi siate nella foresta, loro vi vengono incontro. E uno dei ragazzi, che era un po’ selvaggio e maligno, gridò: “C’è un pettirosso!” Prese una pietra, la lanciò, colpì il pettirosso e gli spezzò un’ala. L’uccello svolazzò via come poté tra l’erba. E i ragazzi se ne andarono senza preoccuparsi più del piccolo animale.
Così il pettirosso sbucò fuori dall’erba. Sapeva che non avrebbe potuto volare per molti mesi, perché la sua ala era spezzata. E poiché sopraggiungeva il tempo del freddo inverno, pensò: “Devo trovarmi un rifugio, un posto dove poter stare e riposare e trovare un pò di cibo, dove nessuno possa farmi del male”.
Il pettirosso viveva in una foresta dove c’erano molti, molti alberi di ogni tipo; frassini e salici, faggi e querce, abeti e insomma ogni sorta di alberi. Così il primo pensiero del pettirosso fu: “Andrò da uno di questi alberi a chiedere che mi diano un riparo. Non posso mica andare dagli uomini, loro tutt’al più potrebbero spezzarmi l’altra ala!”. E saltellò zoppicante attraverso la foresta, trascinandosi dietro la povera ala rotta.
Il primo albero che incontrò era un grande faggio:
“Per favore, Signor Faggio, per favore, aiutami”. E il faggio gli parlò: “Cosa vuoi uccellino?” E lui: “Dei ragazzacci mi hanno spezzato un’ala e ora ho bisogno di un riparo. Per favore, mi puoi aiutare? Potresti nascondermi tra i tuoi rami, almeno finché la mia ala non guarirà”.
“Gira alla larga – rispose il faggio – non ho tempo da perdere con i piccoli uccelli come te. Venite qui, beccate le mie bacche, mangiate i miei semi. Sta’ alla larga, ti dico, non ho tempo per voi piccoli uccelli!”.
Così il povero pettirosso continuò a zoppicare attraverso la foresta e per giunta incominciò a nevicare. Continuò ad andare avanti, trascinando la povera ala rotta, finché arrivò davanti ad una grande quercia. La quercia aveva così tanti rami che si intrecciavano e formavano pieghe e cavità, dove il pettirosso avrebbe facilmente trovato riparo.
“Per favore, Signora Quercia, mi potresti aiutare?”
“Che cos’è che vuoi?” chiese l’albero.
E il piccolo rispose: “Quei ragazzacci mi hanno spezzato l’ala e ho bisogno di un rifugio. Mi potresti ospitare in uno dei tuoi rami, almeno finché la mia ala sarà guarita?”
“Sta’ alla larga – disse la quercia – Non ho tempo per voi, piccole pesti. Prendete le mie ghiande e mangiate tutti i miei semi, sedete tra le mie foglie e fischiate tutto il santo giorno. Siete proprio una scocciatura. Sta’ alla larga, ti dico”.
Il povero piccolo pettirosso se ne andò saltellando e zoppicando come poté nella foresta coperta di neve, finché giunse davanti ad un larice: “Per favore, Signor Larice, aiutami, ti prego!”
“Cosa vuoi?” “Ho bisogno di un riparo per l’inverno” disse il pettirosso, e ripeté la sua storia: “Dei ragazzi mi hanno spezzato l’ala e non posso volare, mi puoi ospitare tra i tuoi rami per un po’ finchè la mia ala sarà guarita?”
“Sta’ alla larga! Non vi sopporto, voi piccoli uccelli. Vi accomodate tra le mie fronde e iniziate a cinguettare, poi prendete, fate cadere i miei aghi, saltellate tra i miei rami, disturbando le mie pigne e mangiando i miei semi. Sta’ alla larga, ti dico”.
Ed eccolo ancora, povero e stanco, il nostro pettirosso che se ne va per la foresta con la piccola ala rotta.
Zoppica e zoppica, arriva davanti ad un maestoso frassino: “Per favore, Signor Frassino, aiutami ti prego. Sono solo un povero pettirosso con un’ala rotta che chiede un rifugio per l’inverno”
“Sta’ alla larga – rispose il frassino – non ho tempo per voi, piccole creature cinguettanti. Vi conosco bene: mangiate i miei semi, sedete e cinguettate, cantate tutta l’estate, e quando l’inverno arriva non sapete fare nulla, se non andare a chiedere riparo a noi alberi. Sta’ alla larga da me!”.
Il povero piccolo pettirosso saltellò, zoppicò, trascinò ancora la sua ala, nella foresta, mentre cadeva fitta la neve. Nella sua mente aveva capito che nessun albero gli avrebbe mai dato riparo.
Alla fine arrivò davanti ad un altro albero, era un piccolo abete. E l’abete ha dei rami molto fitti, che tengono caldo così il pettirosso saltò sul piccolo albero e disse: “Per favore, piccolo Abete, mi vuoi aiutare?”
“Qual è il problema, uccellino?” chiese l’alberello.
E il pettirosso rispose: “Quei ragazzacci mi hanno tirato le pietre e ora ho un’ala spezzata. Ho chiesto a tutti gli alberi che sono nella foresta di darmi un riparo, ma nessuno ha voluto darmi alcun aiuto”.
“È vero quello che dici?” chiese l’abete. “Sì, è vero – rispose il pettirosso – mi hanno ordinato di stare alla larga”.
“Vieni, vieni qui – disse l’abete – questo non è il modo di trattare un piccolo uccello. Gli uccellini andrebbero trattati con maggiore rispetto. Ho molti rami dove potrai stare tranquillo e al caldo, e ci sono molti semi che non raggiungeranno il terreno e non potranno dar frutto.
Salta qui, dentro i miei rami, piccolo pettirosso, stringiti al mio cuore e troverai calore. Ti cullerò nel vento e ti canterò delle belle canzoni”.
L’abete abbassò uno dei suoi rami e il pettirosso vi saltò sopra, infilandosi subito al centro, nel cuore dell’albero, protetto dai fitti rami. Si stava bene, c’era un dolce tepore, e c’erano tanti semi tutto intorno che erano caduti dalla cima dell’albero.
Ma il pettirosso non sapeva che una fata dei boschi si era fermata a riposare sullo stesso albero e aveva sentito la conversazione tra il pettirosso e l’abete. Così la fata pensò: “Quei perfidi alberi”. Aveva sentito il pettirosso che raccontava la storia di come era stato cacciato via. “Quegli alberi si meritano una bella lezione. Ma non tu, mio piccolo albero”.
Così la fata vola verso il cuore della foresta ed incontra il Vento del Nord. Era uno dei suoi migliori amici, come lo erano anche il Vento dell’Est e il Vento dell’Ovest e il Vento del Sud. La fata racconta al Vento del Nord la stessa storia che vi ho raccontato io. E il Vento del Nord scuote la testa, dicendo: “Terribile, terribile, terribile! Non si può credere che degli alberi abbiano fatto questo ad un piccolo pettirosso. Si meritano una bella lezione. D’ora in poi, d’inverno, quando il mio soffio arriva nella foresta, quegli alberi patiranno il freddo. Farò volare via ogni foglia e ogni fragile ramoscello la prossima volta che passerò nella foresta. E avranno tutti bisogno di un riparo. Ma lascerò intatto il giovane abete. I suoi rami saranno sempre verdi durante tutto l’anno, sarà maestoso e sarà l’orgoglio della foresta. Tutti quanti lo ammireranno”.

Così arrivò l’inverno e il Vento del Nord incominciò a soffiare tra gli alberi della foresta, e, come aveva detto, fece volare via ogni singola foglia dai rami del Frassino, della Quercia, del Faggio e ogni ago del Larice, lasciandoli completamente spogli. Ma il piccolo albero, l’Abete, non venne neanche sfiorato dal gelido soffio del Vento del Nord, che vi passò accanto dolcemente, trattenendo il respiro. E per tutto l’anno l’abete conservò il suo bel verde. Il pettirosso vi dimorò per tutto l’inverno. La sua ala guarì. Viveva grazie ai semi che cadevano dall’albero. Poi in primavera volò via per cercare una compagna, fare un nido e avere dei piccoli. Ma sempre, durante l’inverno, ritornava al suo piccolo albero e si appollaiava su in cima. Prima di entrare tra i suoi rami per ripararsi durante l’inverno, stava lì, in cima all’albero, a cantare e cinguettare finché ne aveva voglia. Perché il piccolo abete amava ascoltare il pettirosso che cantava le sue belle canzoni. Ecco perché anche nei nostri giorni, quando le persone festeggiano il Natale nelle loro case, amano sempre avere un piccolo pettirosso sul loro albero.
E questa era la storia dell’Albero di Natale e del Pettirosso.

Possa tu sempre conservare un cuore sempreverde!
May you always keep an evergreen heart!’
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copertina del libriccino bilingue pubblicato da Archivi del Sud Edizioni (2016, grafica Marica Busia)
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La ricerca delle storie (1): il restauro

26/11/2020

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Quando si va alla ricerca di storie antiche, di racconti popolari tramandati attraverso le generazioni, spesso si trovano frammenti sparsi o versioni incomplete. Allora la ricerca procede come per l'archeologo nello scavo e nel successivo restauro.
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Museo Archeologico di Alghero (foto Enedina Sanna)
Primo rilevamento: nella vostra indagine (che siano fonti orali o scritte) avete individuato la traccia di una "Prezzemolina". La riconoscete subito, anche se la madre non va a mangiare il prezzemolo, ma un altro vegetale. E anche se, rispetto alla fiaba più nota, cambia il custode dell'orto (orco/orca/diavolo).
Tuttavia, nel dipanarsi del racconto, la vostra fonte manca di alcuni passaggi (o "motivi") rispetto alla versione più nota. Non è chiaro, ad esempio, con quale stratagemma la ragazza riesce a fuggire dalla torre. 
Seconda fase, "il restauro": la comparazione con altre varianti ci consentirà di colmare il gap, il vuoto di informazione dovuto ad una trasmissione incompleta o frammentaria. 
In questo caso siamo autorizzati a completare la versione ritrovata con il "motivo" preso da un'altra variante. 
Ci sono particolari che sono essenziali per la comprensione della storia, ma che qualche informatore può aver perso lungo la strada della trasmissione orale.
Il ricercatore/storyteller fa in modo che le storie ritornino complete, ma evita il rischio di manipolazioni non autorizzate dalla tradizione. Come? Attraverso una conoscenza approfondita dei materiali e delle fonti. Esattamente come un archeologo o un restauratore. Le stesse regole che valgono per i beni culturali materiali, valgono anche per questi beni immateriali o "volatili", come li definiva Alberto Mario CIrese.
Terzo  passaggio: in occasione della narrazione della storia che abbiamo così restaurato, sarà significativo raccontare anche il percorso della ricerca, se il contesto lo consente. Nel caso di un uditorio composto da adulti, da "addetti ai lavori" e da persone in genere interessate all'arte del narrare, è bello completare sempre con le fonti  e con il processo che ci ha portato a definire questa versione.

​L'esperienza della ricostruzione dei racconti può essere anche un'ottima attività creativa nella scuola, dalla primaria fino alle superiori. Insegna la ricerca delle fonti, la comparazione, la riscrittura con le parti mancanti. Che può portare a tante versioni diverse, e tutte ugualmente "vere". Si può lavorare in gruppo e ascoltarsi a vicenda, senza contestare, senza imporre la propria opinione, semplicemente considerare le diverse possibilità offerte all'interno di una medesima struttura. 

Ancora un altro contesto in cui è molto proficuo e avvincente il lavoro di ricostruzione è quello con gli anziani. Spesso è proprio qui che incontriamo le storie incomplete, i frammenti, addirittura è rimasto solo il titolo, "ma la storia non me la ricordo proprio, ricordo solo che mi faceva tanta paura". E' naturale che la completezza del testo si sia smarrita: non avendo più avuto occasione di raccontare, la storia si è smembrata e poi inevitabilmente dissolta tra i meandri della memoria.
E' del tutto naturale che una persona anziana sollecitata a raccontare "a freddo" vi risponda che non ricorda niente. Sarà necessario un esercizio di "riscaldamento" per far riemergere pian piano i ricordi. Parliamo di altre cose, poi ritorniamo ad interrogare sulla storia che ci interessa. Ma con pazienza e gentilezza. Alla fine è possibile che la storia completa non riemerga. Starà a noi, ricercatori/storyteller, raccontarne una versione completa alla persona anziana. Sarà insomma uno scambio dialogico, sarà come un raccontare a due voci. Al vecchio non resterà la sensazione negativa di non essere stato capace di ricordare, e per tutt'e due resterà il ricordo di una bellissima conversazione, di un passaggio reciproco di memoria e tenerezza.  

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    Coltivo l'arte della narrazione orale o 'storytelling' come disciplina artistica e mezzo per comunicare con mondi diversi.
    Il blog nasce dal desiderio di trasmettere ciò che ho imparato (e che continuo ad imparare ogni giorno) su quest'arte.

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